[Romanzo] Il vangelo di Anna

La seconda indagine del Commissario Polloni

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overhill
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Messaggio da overhill »

Lunedì 4 Aprile – 15:30

Attenzione: contiene volgarità!

“Chissà dov'è quella stronza?”
Claudio si girò ad osservare Cinzia con uno sguardo comicamente severo, e la rimbrottò imitando la voce nasale del terribile professor Agenore Persano, titolare della cattedra di spaccamento di balle e diritto agrario al Poli: “Ba, signorida! Bi ztupisco del suo lessigo! La pregherei in fuduro di astedersi da queste banifestazioni così zcurrili!”
Cinzia alzò il dito medio per indicare all'amico cosa poteva farsene delle sue preghiere,e Claudio rispose ridendo: “ecco, così è molto meglio! Silenzioso ed efficace!”
Cinzia Toso, carina e bruna, non alta ma dimostrazione evidente che nelle botti piccole c'è il vino buono, tornò a guardare fuori dalla finestra il vorticoso fluire delle auto nella rotonda sotto casa.
“No, sul serio” proseguì. “Secondo voi come mai non l'hanno ancora rilasciata? Ho sentito all'Università che il riscatto è stato pagato, nonostante il blocco dei beni. C'è il papà di Umberto che è incazzato come un furetto!”
Umberto era il figlio del dottor Correnti, il magistrato che aveva cercato di bloccare i conti della famiglia Peano, che però era riuscita comunque ad aggirare il blocco sfruttando le amicizie intoccabili delle quali godeva.
“Quel tapiro!” sbotto Claudio.
“Umberto o il padre?” chiese Cinzia.
“Ah, no scusa, hai ragione: quei tapiri!”
Claudio Moglia, 20 anni e un fisico da atleta si alzò dalla sedia sulla quale si era seduto al contrario e si avvicinò alla finestra, ponendosi di fianco alla ragazza.
“Comunque è veramente strano. E' quasi un mese che è sparita e pare che non ci siano indizi. 'La polizia brancola nel buio'” terminò imitando le voci impostate dei giornalisti.
“Poveri rapitori! Se non l'hanno fatta fuori per quanto è rompiballe, è perché vale un sacco di soldi” disse Cinzia senza alcuna pietà. “Ma ve lo immaginate? Un mese con una cretina che parla esclusivamente di informatica, poesia, animali e di quanto sono antichi i suoi!”
Claudio fece una smorfia: “be' in effetti, messo in questi termini, penso che la strozzerei anche io una così. Però esageri adesso: non è mai stata così stronza. Si, qualche volta si metteva a parlare per ore di argomenti di cui non fregava niente a nessuno, tranne che a lei, ma tante volte era divertente, no?”
Claudio cercò l'appoggio del terzo presente nella stanza, che non fece una mossa, restando con lo sguardo perso nel vuoto.
“Franco?” disse Claudio all'amico.
“Franco?!” ripeté alzando la voce. Non ricevendo risposta continuò mettendo le mani di fianco alla bocca per imitare il suono di un megafono “Plin-Plon! Lo studente Franco Perotto è pregato di abbandonare momentaneamente il suo stato catatonico e di tornare sulla terra per essere sottoposto alla periodica zincatura dei testicoli. Si prega chi dovesse incontrarlo, di immobilizzarlo e di dargli un fracco di mazzate sul coppino...”
Il ragazzo non si mosse, lo sguardo restò a fuoco in un punto molto oltre la parete che sembrava stesse osservando. La voce con la quale rispose risultò però decisa, in contrapposizione con il suo aspetto: “coglione, ti ho detto mille volte di chiamarmi Francesco!”
Claudio non si fece sfuggire l'occasione: “Miracolo! Dopo anni di coma si è svegliato! Presto! Accendete ceri a tutti i Santi conosciuti! Pullulo di gioia per questo evento!”
Poi abbassò la voce: “scusa: coglione a chi?”
Cinzia si era stufata, si girò verso Claudio: “mannaggia, ma sei sempre a fare il cretino?! E regolati un poco, no?”
Francesco intervenne in difesa dell'amico: “e cavoli! Ma possibile che oggi ce l'hai con tutti?! E prima con Anna, adesso con Claudio. Se c'hai il ciclo forse e meglio se metti un pannolino in più!” Il ragazzo rincarò la dose: “cazzo! Potrebbe essere morta, magari l'hanno violentata per giorni e tutto quello che sai dire è che è una stronza noiosa? Ma che razza di amica sei?”
“Eccolo qui, un altro stronzo; vaffanculo anche a te...” disse Cinzia girandosi di nuovo verso la finestra. “Che palle!” concluse.
Claudio aveva osservato i due punzecchiarsi. “Accidenti, ragazzi, ma che tensione c'è?”
Francesco era imbufalito: “Un cazzo! Parli tanto di essere stronza e poi, quando un'amica ha bisogno di te, ti comporti esattamente come la testa di cazzo che sei!”
Cinzia non aveva più voglia di lasciar perdere: “Sei un povero cretino! Guarda che lo sanno tutti che ogni volta che vedi Anna perdi un litro di saliva. Sei talmente accecato dalla sua luce che non vedi neanche quanto ti sta usando! Ogni volta che lei ha bisogno tu arrivi scodinzolando e con la lingua fuori! Lei ti usa e poi ti ributta nel solito cesso! E questo lo fa con tutti quelli di cui ha bisogno”
“E se anche fosse? A te cosa te ne fotte?!” replicò gridando Francesco
“Me ne fotte perché sono tua amica, coglione!”
Francesco non si aspettava questa risposta e tacque immediatamente, cercando di valutare se la parte importante era quella prima o quella dopo la virgola. Nel dubbio girò la sua sedia in modo da dare la schiena all'amica.
Claudio intervenne: “Oh, avete finito?!” disse guardando alternativamente i due.
Cinzia e Francesco erano girati di schiena, lui verso la libreria sulla parete di fondo e lei sempre davanti alla finestra.
“Porca vacca! A volte sembrate proprio due bambini! E si che l'immaturo dovrei essere io! Sei innamorato di Anna: e allora? Va bene, no? E' carina anche se probabilmente non te la darà mai”. Francesco fece un gesto come per scacciare una mosca fastidiosa.
“E anche tu, Cinzia, mollala lì! Se Franco è contento di essere trattato come uno zerbino, lascia che si diverta! Il masochismo non è un reato, sai?”
Anche Cinzia non rispose. Si limitò ad alzare lo stesso dito di prima, senza girarsi.
Claudio si spostò verso l'amico. Si chinò davanti alla sedia sulla quale Francesco si trovava e gli pose le mani sulle ginocchia, un gesto molto intimo tra i due, amici da sempre.
“Fra', dai, non te la prendere” disse parlando piano, non tanto per non fare ascoltare le parole a Cinzia, ma per rendere la cosa più personale tra loro. “Lo sai com'è fatta. Alle volte parla senza riflettere...”
Francesco lo interruppe parlando ancora più piano: “no Cla', stavolta mi sa che hai torto. Da quando Anna è sparita, Cinzia mi fa paura. Non hai notato com'è diventata nervosa, intrattabile. Di solito la lascio perdere, ma oggi ha proprio esagerato...”
“Si, si, ho notato, ti ha toccato il 'tuo tessssoro'” disse sibilando come Gollum. “Stronzo!” disse Francesco ridendo. Ma tornò immediatamente serio: “guarda che non sto scherzando. Cinzia ha qualcosa che non va. Tu lo sai che è una ragazza estremamente determinata, e sono certo che se qualcuno avesse la malaugurata idea di mettersi sulla sua strada, ne verrebbe immancabilmente travolto.”
Prese fiato. “E questo mi spaventa da morire. Penso che non esiterebbe ad uccidere se qualcuno le mettesse i bastoni tra le ruote.” Claudio alzò un sopracciglio, per indicare la sorpresa di questa affermazione. Ma Francesco non abbassò lo sguardo e restò serio.
Entrambi guardarono Cinzia, che nel frattempo era rimasta a guardare fuori dalla finestra, strappandosi la pellicina intorno all'unghia del dito che aveva mostrato prima a Claudio.
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Messaggio da overhill »

Dimenticavo: in questo capitolo è nascosto anche un indizio utile per arrivare alla soluzione finale... ;)
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Messaggio da overhill »

Lunedì 4 Aprile – 15:30

Anna emerse dal buio per l'ennesima volta.
Adesso erano veramente troppe le ore che aveva passato attaccata a quello stramaledetto palo, senza mangiare e senza bere. E senza liberarsi di urina e feci...si schifò un poco a quel pensiero, come sempre pensando ad argomenti del genere.
Era chinata in avanti, con i capelli che le chiudevano la vista come due quinte teatrali, o come due paraocchi. Chiuse gli occhi e piangendo emise un lamento che era un po' di dolore per i polsi segnati e la posizione, e un po' per la paura di dovere restare lì ancora molto tempo.
Non si aspettava di sentire un uggiolio in risposta al suo gemito. Alzò di scatto lo sguardo, traendo nuove stilettate dalla schiena, e vide il cane che la guardava, a circa un paio di metri di distanza.
La bestiola, vedendola sveglia, iniziò ad ansimare e a scodinzolare. Anna non era spaventata per la presenza del cane, non aveva mai avuto paura dei cani, ma vedere in modo così evidente quanto questo non fosse una minaccia la rincuorò un poco.
“Ciao...”
La coda sbatté sul pavimento di legno producendo un 'bam bam bam' ovattato.
“Ciao...quanto mi piacerebbe che tu mi potessi aiutare...potresti liberarmi se non fossi ammanettata...”
bam bam bam
Anna non era molto convinta che il cane capisse, ma provò ugualmente a cercare di spiegarsi.
La ragazza provò a dire al cane di cercare aiuto; il cane intuì l'urgenza nella voce della ragazza e smise di scodinzolare. Si alzò sulle quattro zampe ed emise un guaito.
Anna continuò ad incitarlo ad uscire, a convincere qualcuno a seguirlo. L'animale si agitò, si avvicinò alla ragazza e la annusò per bene, cosa che Anna gli lasciò fare senza minimamente tirarsi indietro. Anche perché, pensò, probabilmente l'aveva già fatto mentre era svenuta.
Il cane si agitò ancora un poco poi andò sempre agitandosi verso il pertugio che aveva aperto, ci si infilò e sparì alla vista.
Anna si rilassò. Adesso si trattava solo di aspettare l'arrivo di qualcuno, perché sicuramente il cane si sarebbe fatto seguire. Non poteva che essere così: quella bestiola così intelligente non poteva non avere capito cosa doveva fare. Altrimenti perché sarebbe scappato così velocemente? L'unica spiegazione era che avesse capito.
Cullandosi in questa remota possibilità di salvezza, Anna precipitò nuovamente nel buio.
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Blu
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Messaggio da Blu »

Intrigante la parte sugli amici, rapimento o meno c'è parecchio di "non risolto" fra loro [:^] (e Cinzia non la racconta giusta :P ) .. per quanto riguarda Anna la sua disperazione intenerisce, seguirla mette in luce anche gli aspetti meno chiacchierati dei rapimenti, come le lunghe ore passate nella stessa posizione, il come si possa liberarsi di urina e altro, il fatto che sembri così "abbandonata" al suo destino, senza carcerieri che possano occuparsi, almeno minimamente, di lei.. quello che non ho capito è da quanto sia "così" senza vigilanza, da quanto tempo è legata a quel palo, se dall'inizio del rapimento o solo dal dopo riscatto, se ha visto i rapitori o se addirittura era d'accordo con loro (in effetti, dal suo risveglio, sembra troppo convinta del venir ritrovata), ed anche come mai non sia stata ancora liberata (magari il ritardo è proprio per punizione, proprio perché così "stronza" :roll: ) ..




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overhill
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Messaggio da overhill »

l'autore ha scritto:...Ebbe una fugace visione dell'ago che le si infilava nel morbido incavo del braccio sinistro, dello stantuffo che scendeva dolcemente, della droga che le si insinuava nelle vene...
Come si può intuire dal fatto di avere visto l'ago entrare nel braccio, in quel momento non era ammanettata. Questo è successo dopo l'iniezione...
Da quanto dici vedo che non hai notato il piccolissimo particolare che ho messo ;)
Sinceramente è molto molto minuscolo, e diventa evidente solo quando, alla fine, scopriremo una cosa importante su uno dei protagonisti :)

Per quanto riguarda la consapevolezza della liberazione, i messaggi possono essere stati mandati in sua presenza, e quindi lei dovrebbe sapere quando sarebbero arrivati i poliziotti... forse :)
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Messaggio da overhill »

Oggi, visto che siamo in pieno fine settimana e il tempo è maggiore, capitolo lungo :)

Conosciamo due nuovi personaggi: un professore in pensione, che farà due chiacchiere con Polloni, e Marotta amico e consulente tecnico del commissario.
E' uno di quei capitoli che mi fa piacere scrivere, descrittivi e tranquilli.
Godetevelo :)
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Messaggio da overhill »

Lunedì 4 Aprile – 16:00

Mani dietro la schiena, sguardo perso verso un punto lontano, passi lunghi e lenti, Polloni passeggiava sul suo “molo” personale, cercando tra i rari podisti e le coppiette di fidanzati, qualche appiglio per trovare il bandolo di questa matassa.
Sperava di trovare la concentrazione necessaria per riflettere con calma, e il Parco dell'Arrivore, con i suoi viottoli lungo il Po, era l'ideale per tale attività. In particolare il commissario amava l'area dove il torrente Stura confluiva lentamente nel Po: lì si trovava uno slargo erboso, dove alcune panchine consentivano la tranquilla contemplazione di quello scorcio di natura.
Già pregustava l'intensa sensazione di pace del posto, e questo rese ancora più cocente la delusione di trovare la sua panchina preferita occupata. Un signore piuttosto anziano era seduto su un lato, con la mano appoggiata ad un bastone, e una delle due gambe allungata, per riposarla, e intanto si godeva la beatitudine della vista delle anatre che galleggiavano controcorrente, agitando le zampette per riuscire a stare ferme.
Polloni si avvicinò da dietro, si portò di fianco alla panchina, e con delicatezza si sedette sulla parte libera.
L'uomo non diede segno di averlo notato, continuando a guardare verso l'orizzonte dove i due fiumi, ormai uno, sparivano.
Come spesso capita tra sconosciuti, i due evitavano di guardarsi direttamente, limitando il controllo dell'altro con qualche fugace occhiata data spostando il soggetto al limite del campo visuale. Il tutto, ovviamente, senza rendersi conto di farlo.
Era comunque inevitabile che presto o tardi i due sguardi furtivi si sarebbero incrociati. A quel punto entrambi sorrisero, come ad indicare le proprie buone intenzioni.
L'anziano allora rivolse un saluto al commissario: “cerea”
Polloni rifletté per l'ennesima volta sullo strano carattere dei suoi corregionali. Il saluto in piemontese, anche se sulle prime poteva sembrare un sistema per mantenere le distanze da un possibile “forestiero”, in realtà era un forte indicatore di quanto i Piemontesi fossero rispettosi del prossimo per loro natura. Lo scopo infatti era sì di stabilire subito la provenienza di entrambe le persone, ma per poter impostare la successiva chiacchierata in base al risultato.
Ad esempio, se Polloni avesse risposto con un forte accento siciliano, si sarebbe potuto iniziare un bel discorso sulle bellezze di Catania, o sulle spiagge di Mazara del Vallo o di altri posti altrettanto meravigliosi.
Naturalmente, e purtroppo, questo avveniva nelle persone anziane, mentre la reazione di un giovane sarebbe probabilmente stata “n'aut terun!”
Polloni, che non aveva moltissime occasioni di spolverare il suo arrugginito dialetto, rispose a tono con un “a chiel” appena troppo arrotondato, un poco Cuneese. E questo permise ad entrambi di proseguire il dialogo avendo una chiara idea del proprio interlocutore.
Il tizio, senza girare il capo, chiese al commissario: “a l'è in pensiun, chiel?”
Polloni fece una mezza risata e rispose “ancura nen. A sun trop giuv per andemne e trop vej per travajè5”
L'uomo sorrise alla battuta e, come a scusarsi, replicò: “a l'è la prima volta ca venu si, a cunus ancura nen ji 'abituè' d'l post, ma nurmalment a 'st'ura si ai sun mac i vej e i fidansà.”
Polloni fece un cenno di assenso, poi disse: “a l'ha rasun. Ma a l'è che mi fasu an travaj ad testa, e ugnan'tant a l'hai bisogn d'andeme a fe' dui pass. E sì a l'è an bel post, tranquij; at'lasa la testa pulida.”
L'uomo si girò verso Michele, guardandolo per la prima volta negli occhi. Lo osservò attentamente, con così tanta attenzione che Polloni iniziava a sentirsi a disagio. L'uomo sorrise all'imbarazzo del commissario e porse la mano destra dicendo “mi chiamo Carlo Barovero.”
Polloni si riprese immediatamente dal disagio e porse a sua volta la mano a stringere quella dell'uomo. Una stretta vigorosa gli rivelò un uomo di forte carattere.
“Michele Polloni, piacere. Penso di avere dato tutto quello che potevo con il Piemontese”
L'uomo rise. “Il suo dialetto non è malvagio, ma si sente che si sforza a parlarlo. Ha fatto anche un paio di errorini, non gravi, come il 'bisogn', che in Piemontese sarebbe 'l'ai da manca'.” Sorrise
“In casa sua non si parlava, vero?”
Polloni ripensò agli anni con i suoi genitori: il padre aveva sempre parlato in Italiano con lui, per sua scelta; la madre invece, di origini venete, non aveva mai imparato il dialetto, e non aveva mai dimenticato la sua parlata originale, infarcendo ogni discorso con “ghe”, “'ndemo” e non azzeccando mai, neanche per sbaglio, una doppia, rendendo estremamente comiche le sere in cui il giovane Polloni nascondeva le sue "padele" solo per sentirla nominare l'attrezzo mentre lo cercava.
Michele sorrise a Claudio e rispose: “in effetti lo uso piuttosto poco. A casa si parlava in Italiano, e tra i miei amici ce n'erano pochi con cui parlare in dialetto. Il mio migliore amico era siciliano, di Catania, e la maggior parte degli altri o erano di fuori Piemonte, o anche se erano di qui non parlavano dialetto.”
Claudio fece una smorfia: “è un peccato. Il dialetto è una grande fetta della cultura di una zona. E' un peccato perderla così, nel giro di poche generazioni. Lo si dovrebbe insegnare nelle scuole, anche se così diventerebbe un obbligo e quindi noioso, e non credo che sarebbe ben accetto dagli studenti.”
Polloni assentì lentamente col capo, poi rivolse all'uomo una domanda: “lei è, scusi, era un professore, vero?”
Barovero si girò quasi di scatto con un'espressione comicamente sbalordita: “Ma come ha fatto? E' un mago?”. Rise e continuò: “si, lo so che sembra sempre che stia facendo lezione. Eppure i miei ragazzi mi volevano bene, sa?”
Polloni ne era sicuro. L'uomo era molto simpatico, e la preoccupazione di trovarselo davanti, cioè di fianco, sulla “sua” panchina, si era trasformata nella gioia di un inatteso e piacevole incontro, come spesso si fanno bighellonando per la città.
Claudio continuò. “Ho insegnato per trent'anni nello stesso istituto, il “Leonardo da Vinci”, un Istituto Tecnico per Geometri. Insegnavo Italiano, storia e Geografia. Quanto mi piaceva insegnare! Sapesse quanto mi piaceva...”
Il commissario ascoltava con attenzione il racconto. Poteva solo immaginare quanto doveva essere esaltante l'esperienza dell'insegnamento, quando si aveva a che fare con studenti interessati.
Come proseguendo il pensiero di Polloni, l'uomo disse: “se sapesse la felicità che provavo quando vedevo, improvvisa come l'accensione di una lampadina, illuminarsi su un volto la comprensione di una mia spiegazione! Era una sensazione esaltante, che ripagava di tutte le ore spese ad approfondire, di tutti i giorni buttati dietro a giovinastri che avevano come unico obiettivo arrivare alla fine delle lezioni per andarsene.”
Il tono del professore si era fatto più duro.
“Figli di papà, con la carriera già pronta, senza nessuna necessità di impegnarsi. Quanto li ho odiati! Avrebbero meritato un calcio nel culo...” Si fermò trasalendo, rendendosi conto di non conoscere così bene il suo interlocutore. “Oh, mi scusi...” disse imbarazzato. Polloni rise per sdrammatizzare: “non si preoccupi. Ha perfettamente ragione, tranne che per una cosa: questi ragazzi il calcio in culo ce l'avevano, eccome!”
Risero entrambi.
Il professore si diede una pacca sulla gamba. “E poi questo. Purtroppo la circolazione non va come dovrebbe, e la gamba ne risente.”
“I dottori che dicono?”
“Cosa vuole che dicano? 'Porti pazienza', 'l'età è quella che è', 'faccia movimento', insomma, le solite cose. In pratica nulla!”
Polloni scosse di nuovo, come prima, la testa gravemente. “Già” disse.
Tacquero entrambi, chi sperando di non essere mai in quelle condizioni, e chi sperando di uscirne.
“Ha notato le anatre?” chiese il professore
Polloni guardò verso il gruppetto di volatili e sorrise. “Intende dire a come si agitano? Si, l'ho notato”. Barovero osservò “si agitano come delle matte per riuscire a non muoversi. In fondo è quello che fanno anche molti esseri umani. Non trova?”
Il commissario sorrise: “in effetti conosco molte persone che fanno di tutto pur di non fare nulla. La maggior parte però è in galera...”. Mentre diceva questo sentì l'anziano irrigidirsi.
“Oh...”
Polloni rise e si scusò con l'uomo “mi scusi, non volevo turbarla. Sono commissario di polizia e molte delle mie conoscenze sono ospiti delle nostre carceri.”
Il professore si rilassò e rise a sua volta: “mi scusi lei, ma a sentire parlare di galera...sa com'è, mi da' sempre un poco di inquietudine”
“Lo immagino, non è sicuramente l'unico...il mio mestiere, purtroppo, mi porta a contatto con ogni genere di persone: a volte sono delinquenti della peggior risma, altre volte sono persone rispettabili...” e fece un gesto in direzione del professore, il quale alzò una mano come a schermirsi. “Non creda, anche io potrei avere i miei scheletri nell'armadio. E potrebbero essere belli grossi...” e fece una risata. “Certo che lei deve fidarsi del suo intuito, vero?” proseguì il professore. “Dev'essere piuttosto frustrante, se me lo permette.”
“Be' in un certo senso sì. A volte sono certo di una cosa, ma non posso provarla e quindi è, come dice lei giustamente, frustrante. A volte mi capita di riuscire a trovare la soluzione ad un caso dopo molti anni, per caso. E spesso scopro che avevo ragione a pensarla in un certo modo, ma...non potevo fare nulla. E questo mi angoscia, anche più dei molti casi non risolti...”
“Molti?” interloquì il professore
“Molti” confermò Polloni “Purtroppo spesso i reati rimangono impuniti, a volte perchè non si trova il colpevole, altre volte perché non si riesce a dimostrare che l'indiziato è colpevole. A volte non si riesce neanche a dimostrare il reato.”
“Addirittura!”
“Purtroppo capita anche questo...come nel caso di cui mi sto occupando un questo periodo. Ovviamente non posso parlarle del caso vero e proprio, ma parlando genericamente posso dirle che se una persona fa sparire un'altra persona, e il corpo non viene più ritrovato, non è praticamente possibile dimostrare che c'è stata una violazione alla legge. Manca l'elemento fondamentale, il cosiddetto 'corpo del reato'...”
“Già...”
Polloni si stupì della capacità del professore di mettere a proprio agio le persone. Aveva parlato di un caso con un perfetto estraneo e questa non era una buona cosa. Decise che era ora di andarsene a lavorare un po' di gambe oltre che di testa.
“Bene, professore” disse alzandosi “ora è meglio che vada a guadagnarmi il salario pagato anche dalla sua pensione.”
Barovero sorrise e replicò “bravo, vada a mandare avanti l'Italia. Io resto qui a godermi questa bella giornata.”
“Arrivederci”
“Arrivederci anche a lei, commissario”
Polloni strinse la mano che l'uomo aveva sporto. Il professore disse, abbassando la voce e tirando verso di sé il poliziotto “Commissario, io i giovani li conosco. Sono adulti in divenire, indossano maschere per sembrare più grandi o per nascondere la loro insicurezza. Scavi nella parte più profonda e vedrà che troverà qualcosa...”
“Cosa...?”
“Commissario, dia retta ad un vecchio: quello che non si vede non è detto che sia nascosto. E quello che è nascosto non è detto che non si veda...” Terminò la frase lasciando la mano del poliziotto.
Polloni si raddrizzò e osservò per alcuni secondi gli occhi dell'anziano, che sostenne il suo sguardo con un vago sorriso.
“Grazie, professore. Lo farò...arrivederci.”
“Arrivederci...”
Il professor Barovero tornò ad osservare la falsa immobilità delle papere.

Il Commissario recuperò il telefonino dal profondo della tasca destra dei pantaloni, lo mise davanti a sé, a distanza di sicurezza, lo spostò due o tre volte avanti e indietro, poi decise di arrendersi e ficcò nuovamente la mano nella tasca dei pantaloni. Prese un piccolo astuccio dal quale estrasse degli occhiali dalle lenti piccolissime in altezza, sproporzionate rispetto alla larghezza. Li pose sul naso e finalmente riuscì a digitare un numero di telefono.
Mille volte Rizzo aveva provato a spiegare al suo capo come memorizzare i numeri, ma non c'era proprio verso, non era nella natura del commissario. I numeri andavano ricordati a memoria, altrimenti voleva dire che non erano importanti.
E il numero che compose era molto importante.
Come sempre accadeva quando chiamava il suo amico Silvio Marotta, esperto di informatica e gastronomia, lo immaginò intento a trafficare sul suo fido portatile, oppure a preparare uno dei suoi piatti preferiti, gli spaghetti mare e monti. e in entrambe le attività lo spirito creativo che traspariva dal suo volto era esattamente lo stesso.
“Pronti” sentì nel suo cellulare il commissario, e come al solito non poté resistere, e rispose “VIA!” scoppiando a ridere subito dopo.
“Ehilà, piedipiatti! Come vanno le cose?” rispose la voce allegra dell'amico.
“Bene, bene. Alti e bassi come al solito. Tu cosa stai facendo di bello?”
“Guarda, se te lo dico non ci credi...” disse provocatorio Silvio.
“Uhm...vediamo...stai scrivendo la lettera per ringraziare per il nobel?”
Ci fu un attimo di silenzio. La voce di Silvio suonò serissima e sbalordita: “ma tu come fai a saperlo?”
Questa volta fu il commissario a rimanere senza parole. Ma durò una frazione di secondo, perché immediatamente dopo entrambi scoppiarono a ridere.
“Ci sei cascato!”
“Si, ma solo per un attimo!”
“Non importa, vale lo stesso!”
I due scambiarono ancora qualche convenevole, durante i quali Silvio informò Michele che stava dando il biberon ad un cucciolo di daino, inerpicandosi poi in spiegazioni che rasentavano l'incredibile. Polloni non si stupì più di tanto, conoscendo l'amico.
“Senti, Silvio, hai tempo uno di questi giorni? Ho bisogno di una consulenza per un caso...”
“Tempo non ne ho, ma se mi dai un incentivo...” replicò l'amico lasciando significativamente sospesa la frase.
“Vediamo: cosa ne pensi di un pranzo in trattoria la prossima domenica?”
La brevissima pausa fu piena di significati gastronomici: “Quando vengo?”
“Anche domani mattina, se puoi: è una cosa piuttosto urgente.”
“D'accordo, Michele, vengo da te intorno alle dieci, ok?”
Polloni pensò all'elasticità dell'orologio del suo amico, per il quale 'dieci del mattino' voleva dire un momento compreso tra le 9:30 e le 12:00 circa, ma da anni si era arreso.
“D'accordo a domani. Ciao”
Dopo avere chiuso la comunicazione, Polloni fece il numero dell'ufficio. Rizzo impiegò diverso tempo a rispondere, soprattutto considerando il tempo medio di reazione del giovane.
“Oh, commissario sei tu. Scusa ma ero...”
“Non importa, Giacu” lo interruppe Michele, pensando che probabilmente era al telefono con il misterioso 'Mony'.
“Volevo solo avvertirti che vado a casa dei Peano. Voglio vedere se riesco a trovare qualcosa nella camera della ragazza.”
“Va bene… Buona caccia”
Uhm, questa è la prova che qualcosa non va: normalmente mi avrebbe fatto 'na testa parei8 sul fatto che la scientifica ha già rivoltato la stanza, cosa vuoi trovare ancora, eccetera eccetera...e invece, niente...ma cosa cavolo hai, Giacu?
E con questo interrogativo perso in mezzo a mille altri, Polloni si
incamminò verso la macchina.
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Messaggio da Blu »

Lunghissimo e bellissimo capitolo, un intermezzo molto piacevole quello con il professore :) .. alle volte capita di incontrare persone interessantissime che anche se fanno un'apparizione di pochi minuti nella nostra vita, poi non le si dimentica più, un po' per la "sensazione di buono" che ti lasciano dentro, un po' perché quello che ti dicono inevitabilmente, alle volte anche più tardi a "bocce freme", fa riflettere molto su quello a cui stiamo lavorando/pensando/vivendo..
Questa (imprevista) serena parte del pomeriggio di Polloni l'hai scritta veramente in modo stupendo :) , è descrittiva, ma anche estremamente tranquilla come può esserlo un abbraccio.. lascia anche questa addosso una sensazione di buono, turbata solo dal ritorno alla realtà, l'indagine da portare avanti (con i buoni consigli su cui riflettere del professore) e la preoccupazione per Rizzo..


PS: ma rivedremo il professore :) ? (anche solo a fine storia?) .. mi piacerebbe che non scomparisse :)




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Messaggio da overhill »

Il professore ha fatto la sua parte, in questo romanzo, ma mi riservo di tirarlo fuori per un altro racconto ambientato nell'ambiente scolastico che ho in mente :)
Anche a me ha fatto molto piacere scrivere del professore, ci ho messo l'anima in questo capitolo. Vedremo alla fine se il professore ha dato dei consigli utili oppure no...

Oggi invece approfondiamo un poco la conoscenza dei genitori di Anna.
Questo è un capitolo piuttosto lungo e nella seconda parte, online domani, Polloni troverà un indizio importantissimo, quello che potrebbe dare la chiave di lettura giusto per tutto quello che è successo alla ragazza.
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Lunedì 4 Aprile – 17:00
Prima parte

L’enorme castello apparteneva alla famiglia Peano da diverse generazioni, l’ultima delle quali aveva fatto numerosi interventi per adeguarlo alle nuove tecnologie. Correvano numerose leggende su Villa Cherio, che, come recitava una placca metallica posta all’esterno del cancello d’ingresso, era il nome assegnato alla casa. La data sottostante riportava anche l’anno di costruzione, il 1842.
Polloni era fermo in macchina a qualche decina di metri dall’ingresso e rifletteva; contemporaneamente, all’interno della casa, i genitori di Anna erano nell’enorme salotto su due divani diversi, uno di fronte all’altro, separati da un enorme tavolino basso in vetro. Stavano discutendo animatamente.
“E’ la millesima volta nell’ultima ora che dici quella frase: la mia bambina…” sbuffò Gianrico.
“Questo perché io voglio bene ad Anna” replicò piccata Clara, tirando su col naso. Prese l’ultimo fazzoletto dalla scatola che aveva davanti facendo un gesto di stizza, e si soffiò il naso.
Il marito si alzò e andò verso un contenitore a parete, lo aprì mettendo in mostra una vasta collezione di bottiglie, ne selezionò una la cui etichetta di colore grigio recitava ‘12 year old’. Versò un paio di dita in un bicchiere, ci pensò un attimo poi aggiunse almeno altre tre dita. Tornò al divano e guardando la donna disse: “adesso mi piacerebbe capire perché hai marcato così tanto quel io! Ritieni forse che a me di Anna non importi nulla?”
“A giudicare dal tuo comportamento si direbbe proprio di no!” replicò la donna con voce lamentosa, e proseguì “manca da settimane e tu continui imperterrito a non fare nulla, a mandare avanti lo stramaledetto negozio!”
Gianrico posò il bicchiere appena più forte di quanto avrebbe voluto, facendo risuonare il tavolino in vetro. “Lo stramaledetto negozio è quello che ci dà tutto quello che abbiamo, cara la mia signora tutta club e associazioni! Credi che le tue care amiche ti considererebbero se non fossi sposata con me?”
“Lascia stare le mie amiche fuori da questa storia! Loro almeno mi ascoltano, mi danno conforto! Non come te che stai tutto il giorno a lavorare!”
Gianrico si sedette sul bordo del divano, minaccioso. “Io lavoro per te e per Anna! Cosa credi?!” replicò alzando la voce “Tutto quello che abbiamo lo dobbiamo al mio lavoro e non certo ai tuoi numerosi interventi alla sede del club!”
“Tu lavori per te, non per noi!” disse Clara, puntando un dito tremante verso il marito.
“Almeno io Anna non la soffoco come fai tu! Continuamente a chiedere ‘cosa fai?’, ‘come stai?’, ‘con chi esci?’, ‘chi è tizio?’, ‘chi è caio?’ eccetera eccetera!”
“Perché la seguo, l’ho sempre seguita; non come fai tu!”
Gianrico si alzò in piedi per replicare con più forza, ma in quel momento si udì uno squillo. Sul tavolino in vetro davanti a loro, un oggetto dalla forma simile ad un cellulare trillò. Il piccolo riquadro che si trovava nella parte superiore si illuminò.
Gianrico prese l’oggetto e lo sollevò. Nel piccolo visore si vedeva il volto di Polloni. “Oh, è lei commissario. Dica” disse appoggiando il ricevitore all’orecchio, come un cellulare.
“Buongiorno, signor Peano. Mi scusi se la disturbo, ma avrei bisogno di fare un piccolo controllo…”
“Guardi, commissario, se non è urgente noi avremmo molto da fare…”
“Ah, ma non ho intenzione di disturbare: Ho solo la necessità di controllare una cosa in camera di sua figlia. Sa potrebbe essere utile per le indagini…”
Questa frase, buttata lì dal commissario, ottenne l’effetto sperato.
“Va bene, venga” disse Gianrico. Allontanò il ricevitore e premette un pulsante con il simbolo di un cancello che si apre. All’esterno, con un rumoroso clang il cancello si aprì. Polloni si infilò con la sua utilitaria. Seguì un viottolo che pareva sparire dietro ad una macchia di alberi, e si ritrovò davanti all’entrata principale del castello. Due mercedes erano parcheggiate sotto una tettoia visibile ad una decina di metri. Polloni si chiese se avrebbe dovuto parcheggiare laggiù, oppure se poteva mollare la macchina qui davanti. Decise per una via di mezzo, e spostò la macchina in direzione della tettoia, fermandosi a metà strada.
Scese e si avvicinò al portone.
Non vide nessun campanello. Mentre cercava di capire come fare a farsi aprire, la porta emise un soffice rumore metallico e si aprì senza il minimo rumore.
Dietro la porta non c’era nessuno, ma una voce proveniente da un pannello semi-invisibile, e che Polloni ovviamente non aveva visto, lo invitò ad entrare.
Il poliziotto si infilò nel portone, chiamarla porta sarebbe stato riduttivo, e si trovò in un grande salone, le cui dimensioni erano all’incirca il doppio del suo appartamento.
Quando il commissario era stato incaricato delle indagini era venuto nell’enorme casa, ma era arrivato con la macchina di servizio e era entrato da un altro passaggio, laterale. Questa era la prima volta che veniva quasi ‘in visita’, e era decisamente intimorito.
Mentre si guardava intorno, una voce dall’alto lo riscosse: “buongiorno commissario. Avete finalmente delle novità degne di questo nome?”
La voce del padre di Anna era, come sempre, tagliente. Stava scendendo da uno dei due rami di un enorme scalone che portava al piano superiore.
Polloni allargò le braccia e replicò con il suo tono più umile: “sono veramente spiacente, ma non ci sono stati sviluppi, per ora. I nostri tecnici sono tutti al lavoro per cercare di recuperare la zona dalla quale sono stati inviati i fax, ma per ora è come cercare il classico ago nel pagliaio.”
Gianrico si fermò sul penultimo scalino, aggiungendo questa posizione alla sua altezza, e ottenendo un doppio vantaggio. “Male, come sempre. Allora non riesco proprio a vedere a quale titolo lei sia venuto qui adesso…”
“Mi scuso, signor Peano. Sono veramente spiacente di disturbare. So che gli uomini della scientifica vi hanno già rivoltato la casa, ma vorrei vedere ancora una volta la stanza di Anna.” Disse il commissario abbassando il capo. Vedendo poi l’espressione di Peano alterarsi, si affrettò ad aggiungere “sempre che questo non crei problemi a lei o alla sua signora…” terminò esibendo uno dei suoi migliori sorrisi.
Gianrico Peano era quasi inorridito davanti all’affronto, e stava per sbottare, quando una voce delicata, proveniente dalle sue spalle, si intromise: “fai entrare il commissario, Gianrico: qualunque cosa per Anna”
La moglie era all’inizio della scala e sovrastava i due uomini.
“Non credo proprio che…” iniziò a parlare Gianrico, ma fu bruscamente interrotto dalla moglie. Guardandolo fissamente negli occhi, per la prima e unica volta nella sua vita tenne testa al marito: “qualunque cosa” disse quasi sibilando.
Gli uomini erano entrambi sbigottiti dalla dimostrazione di forza della donna, ognuno per motivi diversi. Gianrico stava cercando di capire se era il caso di cedere, mentre Michele sperava che questa svolta potesse essergli utile.
Marito e moglie si affrontarono per alcuni secondi, poi Gianrico, senza voltare lo sguardo, disse: “mi segua.”
Dicendo questo iniziò a salire le scale, sempre senza staccare gli occhi dalla donna, che a sua volte sostenne lo sguardo. Arrivato in cima alle scale, con Polloni che si trovava ancora a metà, l’uomo si fermò per un istante. Clara aveva gli occhi umidi e rossi, ma non abbassò lo sguardo.
“Da questa parte” disse Gianrico, continuando a fissare la donna per qualche secondo.
Gianrico precedette il poliziotto attraversando alcuni corridoi pesantemente arredati con tappeti, quadri, stucchi. Polloni, per l’ennesima volta, si ritrovò a pensare ad un museo. Un posto decisamente non consono alla vita di una ragazza giovane.
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Lunedì 4 Aprile – 17:00
Seconda parte

Peano aprì una porta e introdusse il commissario nella camera di Anna. Enorme, come il resto della casa. Sulla parete di fronte a quella dove si apriva la porta c’erano tre finestre, e in corrispondenza di quella centrale, a bovindo, si formava una nicchia nella quale un piccolo tavolo rotondo al centro e un giro di divanetti intorno alla parete, creava un delizioso angolo per chiacchierare con gli amici o per meditare guardando il parco sottostante.
A sinistra un grande letto sormontato da un baldacchino, molto retrò. A Polloni non piaceva particolarmente, ma cercò di immaginare se e quanto avrebbe potuto piacere ad una ragazza.
A destra si trovava una scrivania di fronte ad alcune librerie, evidentemente l’angolo – si fa per dire – studio.
Nella parete di sinistra, di fianco al letto, una porta conduceva alla zona armadio.
Polloni osservò tutto questo con una lunga occhiata circolare. Entrò lentamente nella stanza, osservato dal padre della ragazza, che sembrava intenzionato a non muoversi da lì, almeno a giudicare dal modo con cui osservava il commissario.
Questi si guardò intorno per un paio di minuti, riflettendo, poi si ricordò della presenza di Peano. Lo guardò come se lo vedesse per la prima volta, si riscosse poi disse con voce ferma: “grazie signor Peano. Le dispiace lasciarmi da solo?”
Gianrico Peano era quasi al limite della sopportazione: come osava quello sbirro dargli degli ordini? Come si permetteva?
“Veramente…” iniziò a dire, ma il commissario gli rivolse un altro dei suoi sorrisi e gli disse “la prego, ho bisogno di concentrarmi.”
Per la seconda volta nel giro di pochi minuti Gianrico cedette, e con riluttanza si accomiatò dal poliziotto: “quando ha finito noi siamo nel salotto del giardino. Lei sa dov’è” e se ne andò.
Polloni guardò per qualche secondo lo spazio lasciato vuoto dall’uomo, riflettendo su quanto le persone potessero essere diverse da quello che in realtà apparivano. Gli venne in mente una complicatissima frase di Carrol, lo scrittore di ‘Alice nel Paese delle Meraviglie’ , qualcosa del genere non immaginarti mai diverso da come potrebbe apparire agli altri… Non ricordava il resto, ma ricordava che il senso finale fosse ‘comportati come vuoi che gli altri ti vedano’. Forse.
Si riscosse dalle sue considerazioni filosofiche e si mise al lavoro. In realtà la scientifica aveva già fatto un giro nell’intera casa dei Peano, ma con scarsissimi risultati, anche perché era improbabile che ci potessero essere riferimenti a qualcosa avvenuto all’esterno della casa, e quindi i controlli erano stati più per prassi che per convinzione. La ragazza non teneva un diario, a quanto era risultato, e comunque non si era trovato nulla a parte i libri scolastici, qualche rivista, ricordi di concerti e di spettacoli di teatro. I quaderni contenevano esclusivamente appunti sulle materie scolastiche.
Insomma, una vita quasi asettica. Strano per una moderna ventenne, pensò Polloni. L’unica nota di colore era un poster che riproduceva Einstein nella famosa foto nella quale mostrava la lingua, un classico dei ragazzi particolarmente dotati di intelligenza, che dimostrava quanto anche un genio potesse essere simpatico.
Il commissario iniziò la sua ispezione dalla zona notte. Aprì il cassetto del comodino, sul quale si trovava una lampada relativamente grossa comandata da un interruttore, alcuni fogli di appunti su una non meglio precisata ‘sequenza di Fibonacci’, un grosso tomo dall’inquietante titolo ‘La relatività ristretta’ e un segnalibro. Polloni prese il voluminoso libro per osservarlo meglio, rivelando la presenza di una rivista per ragazze. Sorrise. Alura t’ses nen na rata dei liber! Pensò divertito.
Controllò il letto, alzò il materasso con qualche difficoltà, ma nella rete non era presente nessun oggetto che potesse interessarlo. D’altro canto l’avrebbero trovato.
Andò nella nicchia del bovindo e controllò panche e tavolino senza risultato.
Non mi resta che la scrivania rifletté. In effetti era un mobile piuttosto grosso e con numerosi cassetti di dimensioni variabili: più grossi nella parte inferiore e più piccoli sopra, con un paio sottilissimi, dedicati probabilmente alla cancelleria, nella parte subito sotto al piano di lavoro.
Anche se era un po’ troppo da romanzo di appendice, il commissario si chiese se non poteva esserci uno di quei cassetti segreti tanto cari ai costruttori di un paio di secoli fa. Cominciò a toccare tutti gli angoli più nascosti premendo, tirando, schiacciando, ma senza ottenere assolutamente nulla.
Mah, forse sono troppo malizioso. Proviamo qualcosa di più semplice. Si sedette sulla poltroncina che si trovava davanti alla scrivania e iniziò ad aprire i cassetti. I due in alto erano pieni di cancelleria, come la loro dimensione dava ad intendere. A destra matite, biro, penne, rapidograph e altri oggetti per scrivere; a sinistra invece gomme, cancellini e altro per cancellare. Logico pensò: di qui scrivo e di qui cancello.
La figura di Anna piaceva sempre di più all’ordinato commissario.
I cassetti successivi contenevano fogli, appunti e altre cose del genere.
Polloni aprì gli ultimi in basso. A destra c’erano un paio di pattini, che fecero calare di qualche punto il rispetto per l’ordine che il commissario aveva attribuito alla ragazza.
A sinistra invece un paio di risme ti carta occupavano quasi completamente il piano del cassetto. Si intravedevano appena le venature orizzontali del fondo.
Polloni chiuse con un gesto di stizza l’ultimo cassetto.
Niente. Niente di niente. Ma giuda faus!
Si alzò dalla sedia e si diresse verso la porta di fianco al letto. La cosiddetta ‘cabina armadio’ era una stanza a tutti gli effetti, grande all’incirca la metà della camera da letto del commissario. Sulla parete di fronte alla porta una serie di scaffalature custodivano le numerose scarpe della ragazza; sulla destra la finestra vicino alla quale erano posizionati alcuni specchi, dove ci si poteva rimirare illuminati dalla luce naturale. A sinistra un mobile di legno conservava camicie, maglioni e altri vestiti piegati. Nella parte centrale invece, alcune strutture tubolari permettevano di ammirare le decine di vestiti di Anna.
Polloni era consapevole che frugare tra i vestiti di una donna era una violenza piuttosto grave, ma era un lavoro che andava fatto.
Iniziò dall’armadio, controllando ogni cassetto, ogni stipetto, ogni angolo. Le scarpe, poi, una per una. Infine i vestiti; ma anche qui niente di niente.
Tornò deluso nella grande camera da letto. Guardò la scrivania e si ricordò di un film dove un ragazzo nascondeva delle lettere nella parte posteriore dei cassetti. Finchè le lettere erano rimaste poche la cosa non si era notata, ma poi il ragazzo aveva esagerato e l’eroe di turno se n’era accorto perché i cassetti rimanevano leggermente all’infuori.
Polloni guardò da vicino i cassetti. Tutti perfettamente a filo.
Tolse il primo e controllò sotto e dietro: niente. Il secondo: niente.
Niente, maledizione, niente! Il commissario era sempre più imbufalito per l’assoluta mancanza di indizi, di segnali. Non c’era nulla che potesse aiutarlo.
Estrasse gli altri quattro cassetti, ottenendo per ognuno lo stesso risultato: dietro non c’era nessun messaggio segreto, neanche scritto direttamente sul legno, e la stessa cosa poteva dirsi per la parte inferiore, dove le venature del legno correvano per il lungo del cassetto senza la minima interruzione.
Polloni avrebbe gridato volentieri, ma era ovviamente troppo professionale per fare una cosa del genere.
Rimise i cassetti al loro posto, controllando che le cose che contenevano fossero ordinate come prima. Si posizionò al centro della stanza e diede ancora una lunga occhiata circolare.
Ma non gli venne in mente nulla.
Ripensò al professore che aveva conosciuto quello stesso giorno, e al suo odio-amore per i ragazzi. Ripensò alla sua frase sibillina,‘non tutto quello che non si vede è nascosto’. Aveva detto così, vero? Polloni ci pensò un po’, poi non gli venne in mente niente altro e fece per uscire dalla stanza.
In quel momento una luce si accese in fondo al tunnel.
Tornò alla scrivania e aprì il cassetto che conteneva le due risme di carta. Il movimento brusco fece scattare in avanti i due pacchi. Polloni li spinse indietro e osservò il fondo del cassetto: proprio così! Le venature erano orizzontali!
Tolse la carte e lo estrasse di nuovo. Le venature erano diverse fuori e dentro!
Il piano interno era evidentemente sovrapposto a quello originale. Prese un piccolo coltello svizzero e cercò un punto dove fare leva. Non ci riuscì. Girò il cassetto sottosopra per fare cadere il falso pianale, ma il piccolo piano era perfettamente incastrato nel cassetto.
Ma ormai l’istinto del poliziotto era scatenato e Polloni tanto fece e tanto si diede da fare che finalmente, con una specie di sibilo causato dall’aria che si infilava nella parte nascosta, il fondo del cassetto si alzò.
Polloni, con il piccolo riquadro di legno in una mano e il coltellino nell’altra, abbassò gli occhi ad osservare l’oggetto così accuratamente nascosto.
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Messaggio da Blu »

Intrigante anche questo capitolo nelle sue due parti, sia per come mostra i genitori di Anna nel loro diverso modo di non farsi sopraffare dal dolore (purtroppo non condiviso dai due), sia per come è descritta la casa attraverso gli occhi di Polloni :)
overhill ha scritto: “sono veramente spiacente, ma non ci sono stati sviluppi, per ora. I nostri tecnici sono tutti al lavoro per cercare di recuperare la zona dalla quale sono stati inviati i fax, ma per ora è come cercare il classico ago nel pagliaio.”
.. "fax"?.. ma non erano sms? A questo proposito, hai sentito di quel rapimento nel Pavese al telegiornale di oggi :O_o: ? Qualcuno ha dato per buono il metodo sms dei rapitori di Anna, speriamo che si risolva per il meglio :)

overhill ha scritto:Peano aprì una porta e introdusse il commissario nella camera di Anna. Enorme, come il resto della casa. Sulla parete di fronte a quella dove si apriva la porta c’erano tre finestre, e in corrispondenza di quella centrale, a bovindo..

.. A destra matite, biro, penne, rapidograph e altri oggetti per scrivere
Non sai quanta nostalgia nel rileggere questa parte :) , dai bovindo (italianizzazione dei bow window) ai rapidograph: senza volerlo mi hai riportato indietro di vent'anni a quando alle superiori scherzavamo durante le lezioni di storia dell'arte e progettazione :D .. grazie :)




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Messaggio da overhill »

Prego :)

Il fax è un rimasuglio della prima versione... pensavo di averli tolti tutti :D
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Messaggio da overhill »

Oggi capitolo corto, giusto per farvi crescere la curiosità su quello che Polloni ha trovato nel doppiofondo del cassetto... :)
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Messaggio da overhill »

Lunedì 4 Aprile – 17:05

La prima cosa che Anna sentì svegliandosi per l’ennesima volta fu la fame. Un dolore sordo allo stomaco, che implorava cibo; una mano possente che stringeva il suo ventre con pulsazioni che seguivano il ritmo del suo respiro affannoso. Le labbra aride avrebbero avuto bisogno di acqua, ma anche questa era fuori discussione.
Anna emise un piccolo gemito. In risposta sentì l’uggiolio del suo nuovo amico.
Nonostante il dolore la ragazza sorrise tra se, pensando che se la bestiola era tornata, forse c’erano delle novità, magari qualcuno stava arrivando.
Alzò la testa e cercò con gli occhi il cane. Bam bam bam, la coda dell’animale iniziò a battere il tempo sul pavimento di legno. Anna sentì il cane alla sua destra e girò con circospezione il capo.
Gli occhi erano annebbiati e impiegò qualche minuto prima di riuscire a mettere a fuoco l’animale, che sedeva composto continuando a battere la coda. Bam bam bam.
“Ciao” riuscì a dire con un filo di voce, provocando un aumento della frequenza dei battiti della coda.
Il cane sembrava sorridere compiaciuto guardando la sua amica. Abbassò la testa, come ad indicare un oggetto che si trovava per terra, tra lui e la ragazza.
Anna osservò il cane e il movimento che aveva fatto, seguì la linea del collo, del muso e arrivò a guardare quello che il suo amico era così ansioso di darle.
Chiuse gli occhi due volte, cercò di mettere a fuoco ancora una volta, convinta che certamente aveva visto male, non poteva essere quello che sembrava.
Ma non c’erano dubbi: il cane aveva capito benissimo di cosa la ragazza aveva bisogno, ed era corso a procurarglielo come poteva.
Questo non fu di nessun conforto per Anna che, prima di svenire per l’ennesima volta, emise un lungo gemito, tutto quello che riuscì a fare al posto dell’urlo che le premeva la gola arrossata.
Il cane guaì ancora un paio di volte, spingendo orgogliosamente col muso verso la ragazza la carcassa sanguinolenta del grosso topo che le aveva catturato.
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