… La bottiglia ruotava sul suo baricentro, velocissima; a un certo punto cominciò a rallentare sempre di più finché non si fermò.
Il suo collo indicava Giuseppe, il quale strabuzzò gli occhi per poi rilassarli in una smorfia infastidita.
“Beh, che devo fare?” chiese a Lalla, la bambina che aveva fatto girare la bottiglia. Questa si era guadagnata il diritto di farlo dopo aver accettato il suo pegno: un bacio di Graziano, che non era certo il più attraente dei suoi amici.
“Mmmmh” mugolò lei in risposta, l'indice sulla guancia, gli occhi al cielo e un sorriso beato “Ecco, ho un'idea!”. Frugò nel vestitino bianco col pizzo rosso ai bordi e prese una mela renetta “Mangiala” ordinò mentre la porgeva a Giuseppe.
“Tutto qua?” chiese il ragazzino, stranito.
“Tutto qua” ripeté Lalla in risposta. Il suo amico fece spallucce, afferrò la mela e la addentò; in pochi morsi l'aveva finita. Fu in quella che Lalla scoppiò in una risata grassa e crudele.
“Cosa c'è di tanto divertente?” chiese allora Filippo, talmente magro che i vestiti gli cadevano di dosso.
“C'era il verme” rispose Lalla “ho visto il buco e l'ho messa via... e ora lui se l'è mangiato insieme alla mela!”
Cinque paia di occhi si voltarono di scatto da Lalla a Giuseppe, che era sbiancato; poi la risata di Lalla si estese ai loro possessori, scaraventandoli a terra, ingrossando le loro pance e facendo uscire lacrime ilari dai loro occhi.
“Non c'è niente da ridere!” gridò Giuseppe, mentre i suoi occhi si inumidivano a loro volta “questo non si fa, è... è una cosa cattivissima ! Potrebbe venirmi il mal di pancia, o... o potrei morire!”
“Ma sta' zitto!” lo canzonò Serena, con gli occhi strabici “ha detto mia mamma che in Cina se li mangiano fritti, i vermi!”
E giù altre risate. Giuseppe tirò un calcio a una pietra, certo che Lalla avrebbe pagato caro un tale affronto.
L'occasione di riscuotere gli si presentò pochi attimi dopo.
Noncurante delle risate dei suoi amici, Giuseppe prese la bottiglia e la fece roteare con violenza.
“Ha preso Lalla!” esultò dopo un attimo.
L'allegria dei bambini si spense in un secondo, e tutti guardarono il collo di vetro verde che si era fermato a pochi centimetri dalle ginocchia della sua penultima manovratrice.
“Ehi, non dire cretinate” lo redarguì Marcello, con l'apparecchio ai denti “non hai avvisato che la facevi girare, non abbiamo visto niente!”
“E io invece avevo visto che indicava Graziano, non Lalla!” aggiunse Gina, con le trecce scomposte “tu l'hai spostata di nuovo verso Lalla”.
“Gne, gne, gne, ma quanto piagnucolate!” gridò Giuseppe “Toccava a me farla girare e l'ho fatto. Ha preso Lalla e ora lei deve pagare pegno. Sono le regole... e se non vi piacciono, dirò al portiere che è stato Graziano a rompere la finestra della Panetti!”
Graziano, una massa unica di ciccia, iniziò a piangere.
“Non è vero!” gemette “non l'avevo lanciata io, la palla!”
“Sta' a vedere che si era lanciata da sola” sbuffò Giuseppe, minaccioso.
“Vabbè, vabbè” intervenne allora Lalla “pago pegno, così la finisce. Che devo fare, allora?”
“Mi devi far mettere la mano sotto il tuo vestito” rispose trionfante Giuseppe.
“Ehi, questo non si fa!” urlò Filippo, che non aveva mai nascosto una certa attrazione per Lalla “cambia pegno o dirò a tua madre che l'hai fatto, e anche che l'hai baciata”.
“Uffa, che rottura. Non ci vengo più a giocare con voi, lo giuro” rispose furioso il suo amico “Comunque... va bene, cambio pegno. E so già che cosa farà”.
Era un'estate caldissima.
Mentre i sette bambini attraversavano la campagna, il sole delle dieci dorava la loro pelle e la rendeva incandescente e appiccicosa; piccoli vermetti neri vi si posavano per restare invischiati in quella trappola di sebo e sudore, fino a che una mano crudelmente pietosa non poneva fine alle loro sofferenze.
Le cicale frinivano come impazzite, e quello era l'unico suono che avvolgeva l'ambiente, puzzolente di erba bruciata.
“Dove ci stai portando?” chiese Serena a Giuseppe, asciugandosi il volto da sotto gli occhiali.
Il suo amico non le rispose: si limitò a rivolgerle uno sguardo maligno che un istante dopo si spostò su Lalla.
Man mano che si allontanavano dalla periferia, la campagna si faceva sempre più selvaggia e inquieta. Giuseppe guidava il gruppo; Filippo lo seguiva con gli occhi bassi e le mani in tasca. Le tre bambine si erano avvicinate e parlottavano con la veemenza adatta a nascondere un lieve disagio; Marcello era un passo dietro di loro, gli occhi fissi sulle forme che poteva indovinare sotto i vestitini delle sue amiche. Qualche metro più indietro, Graziano saltellava per cercare di raggiungere i suoi amici, con chiazze scure che gli si disegnavano sulla maglietta.
“Ci siamo quasi” annunciò il leader mentre il tratturo che stavano percorrendo faceva un'improvvisa virata sulla destra e svelava un immenso quadrilatero di pietra sul quale si inseriva un grosso portone di ferro battuto.
Si trattava delle mura di un'antica masseria fortificata della quale i ragazzini riuscivano a scorgere soltanto il tetto; nonostante fossero evidenti i segni dell'abbandono e dell'incuria, il suo aspetto era ancora quello di un edificio inespugnabile.
“Ma questo è il Guadagno” disse Gina, ricordando il nome con cui in paese si indicava l'edificio “perché ci hai portati qua?”
Giuseppe ridacchiò.
“Perché il pegno di Lalla sarà di entrarci ed esplorarla” rispose “da sola, ovvio”.
“Beh, che ci vuole?” asserì la bambina, sprezzante “Se credi che una vecchia casa abbandonata mi spaventi, ti sbagli di gro...”
“Questa non è solo 'una vecchia casa abbandonata'” la interruppe lui “sai perché si chiama 'il Guadagno'?”
“Lo so io” intervenne Serena “me l'ha raccontato mia nonna. Tanto, tanto tempo fa, qui dentro ci abitava un signore che era stato nominato dal re per prendere le tasse del paese; tutti quelli che ci abitavano dovevano venire qua e pagare per...”
“Non dire stupidaggini!” la interruppe Giuseppe “Si chiama così per via della Strega!”
Marcello, che stava osservando un placido ramarro sul muro, a quelle parole si voltò di scatto; Filippo sgranò gli occhi, mentre Serena, Gina e Graziano emettevano un gemito. Solo Lalla e Giuseppe rimasero più o meno fermi a fissarsi l'un l'altra, anche se lei aveva avuto un impercettibile fremito.
“Qua dentro” proseguì il bambino “nel Medioevo ci viveva una Strega. Era una donna che aveva fatto l'amore col diavolo e aveva ottenuto i suoi segreti; poteva vivere in eterno e restare sempre giovane e bella. Però poi un giorno lei decise che voleva essere pure ricca, così iniziò a vendere le sue magie”
“Che vuol dire?” chiese Lalla, d'un tratto interessata alla storia.
“Faceva i filtri. Quelli per fare innamorare le persone, per curare le malattie, per comandarle... insomma, con la sua magia poteva fare tutto. E poi li vendeva. Costavano tanto, sapete... e lei divenne ricchissima. Era potentissima, teneva a comando tutto il paese. Ecco perché questo posto si chiama 'il Guadagno'”.
“E... e poi come andò a finire?” chiese Graziano col fiato mozzo.
“Oh, ma questo è il bello” rispose Giuseppe, mostrando i denti storti in un sorriso perfido “il diavolo a un certo punto si arrabbiò, perché lei stava usando i suoi segreti per far soldi. Così le tolse tutti i poteri e pure la giovinezza. Le lasciò solo la vita eterna”.
“Beh, mica male!” ridacchiò Filippo.
“Ti credi! Quella è condannata a vivere per sempre, ma non a rimanere giovane... diventa ogni giorno più vecchia... la pelle marcisce, i denti le cadono, le gambe cedono... ma lei non può morire. Però... il diavolo le ha concesso un modo per ritornare giovane, anche se temporaneamente...”
Qui il bambino fece una pausa appositamente per creare tensione nei suoi amici.
“... Deve mangiare l'anima delle bambine che vanno a profanare la sua casa”.
Gli occhi dei bambini stavolta scattarono verso Lalla.
La ragazzina aveva un'espressione impenetrabile, quasi come se la storia non l'avesse impressionata affatto.
“Non puoi farla andare!” gridò Gina “se la trova la strega le farà...”
“Non c'è nessuna strega, scema!” la interruppe Lalla in un sibilo “è solo una stupida storia che si è inventato lui per metterci paura. E comunque non ci posso entrare, là dentro” aggiunse sottolineando la sua affermazione con tre pugni al portone di ferro.
Per tutta risposta, Giuseppe mosse qualche passo indietro lungo il perimetro delle mura, si inginocchiò e con grande sforzo divelse un grosso pietrone dalla loro base: si aprì una fessura al di là della quale si intravedeva il cortile interno. Era grande abbastanza perché Lalla ci potesse strisciare dentro.
“Me l'ha fatta vedere mio fratello” si pavoneggiò il ragazzino “Allora, ci vai?”
Lalla deglutì; il suo cuore batteva talmente forte che si sarebbe potuto vedere il petto alzarsi e abbassarsi. Trasse due lunghi respiri.
“Va bene. Vado” disse.
Lalla strisciò nella fessura. Era davvero stretta; la pietra delle mura le si sfregò contro il vestito e glielo strappò in alcuni punti, mentre il terreno le inzaccherò gomiti e ginocchia.
Si alzò in piedi, si spolverò alle meno peggio (come si sarebbe arrabbiata la mamma!) e diede uno sguardo al cortile.
Secoli di erba incolta avevano sommerso il lastricato che un tempo lo aveva rivestito, del quale si intravedevano adesso solo sporadici frantumi calcarei; di rimpetto a lei si stagliava l'imponente facciata della masseria, dalla quale erano state asportate tutte le finestre e le porte, lasciandone solo uno scheletro minaccioso. Ai lati, a ridosso delle mura, si elevavano due costruzioni più piccole e scarne. Si sentiva l'odore di muffa, sporcizia e marciume.
Il silenzio imperante riempì il petto della bambina per un attimo; poi udì un clunk alle sue spalle che la fece trasalire. Si voltò di scatto e si rese conto che la pietra era stata rimessa al suo posto.
“Ehi! Ehi!” cominciò a gridare mentre prendeva a pugni la pietra “Questo non lo avevi... non puoi... Giuseppe! Giuseppe!”
Ma le mura erano troppo alte e spesse: si udiva appena il brusio delle voci dei suoi amici, nel quale a malapena si indovinavano frasi sdegnate, piagnistei e risatine; di sicuro le sue proteste dovevano risultare allo stesso modo indiscernibili per loro.
La ragazzina attese diversi minuti che la pietra fosse nuovamente rimossa; due o tre volte la vide oscillare appena, ma alla fine capì che Giuseppe aveva fatto in modo che gli altri non la toccassero se non sotto suo ordine.
Tanto valeva, a quel punto, pagare pegno fino in fondo e iniziare a esplorare la masseria; la storia della Strega, del resto, non poteva essere vera.
… O sì?
Lalla diede un ultimo pugno al muro e, furente, si incamminò verso l'edificio.
Di una cosa era certa: quando sarebbe uscita da lì, Giuseppe le avrebbe prese di santa ragione.
Iniziò la sua esplorazione dai due piccoli vani laterali; quello di sinistra aveva le volte a botte e alcune mangiatoie scavate nelle mura tufacee; la ragazzina capì che si doveva trattare delle antiche stalle della masseria: la pluricentenaria puzza di merda confermava questo assunto.
Per qualche istante, Lalla immaginò i bellissimi e altezzosi destrieri bianchi che un tempo assai lontano dovevano aver abitato là; si chiese come sarebbe stato se uno di essi fosse stato suo... se l'intera masseria fosse stata di sua proprietà.
Altro che streghe e gabellieri: lei sarebbe stata una perfetta principessa.
Volteggiando su queste fantasie, Lalla uscì dalle stalle e si diresse nella costruzione di rimpetto. Qui però non trovò nulla di interessante: era un semplice stanzone alto e largo, squadrato, con le mura di pietra e quattro colonne di sostegno. C'era però un odore ancora più penetrante, simile a quello della feccia ristagnante nei vasi d'olio: forse quel vano era stato un granaio, o un disimpegno dove gli abitanti della masseria avevano stipato per anni e anni le loro provviste.
La visita a quell'edificio si stava rivelando sempre più avvincente: Lalla aveva sempre avuto una grande fantasia, e quel posto grondava ancora della vita di chi ci aveva abitato.
Altro che strega! Lalla rise chiedendosi se qualcuno dei suoi amici avrebbe mai accettato di farsi un giro là dentro con lei. La risposta era ovviamente no: solo lei avrebbe goduto di quelle meraviglie.
Si sentì coraggiosa, quasi privilegiata ad essere lì.
Non le restava che andare a esplorare il corpo principale della magione... chissà, con un po' di fortuna avrebbe potuto trovare qualche cimelio da sbattere trionfante sotto il naso di Giuseppe.
Uscì dal granaio e si diresse verso la grande voragine che un tempo era stata l'ingresso della masseria.
I raggi del sole si fermavano a pochi passi dall'entrata: quando Lalla fece il suo ingresso, dovette strizzare ben bene gli occhi per abituarsi alla penombra.
L'ambiente era vasto e spoglio: lo spazio era scandito da quattro grossi pilastri decorati con capitelli ormai erosi e rovinati; una grande scalinata si inerpicava di fronte a lei, e le sue polverose ringhiere di legno terminavano in braccioli a forma di testa di leone; a destra e a sinistra si riuscivano a scorgere dei corridoi, simili a grandi occhi rettangolari.
La baldanza di poco prima lasciò spazio a un senso di disagio: in quel luogo c'era un che di inquietante, qualcosa che lo allontanava dalla luminosa semplicità delle stalle e del granaio. Era come entrare in un luogo alieno, totalmente a se stante.
Lalla deglutì e rimase per diversi attimi ferma, appoggiata al battente della porta; non sapeva se proseguire o rimanere ad attendere nel cortile; non doveva mancare poi molto al momento in cui Giuseppe le avrebbe permesso di uscire...
I suoi occhi vagarono nell'androne, incerti... finché non si posarono su qualcosa che la fece trasalire.
A pochi passi da lei, a ridosso della parete della controfacciata, sul pavimento c'era l'impronta di una mano.
Era color del sangue.
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