Bene, e anche il primo capitolo l'abbiamo messo in opera: anche qui sono arrivato alla fine facendo succedere una cosa, e non sono del tutto convinto che sia "corretto"... ma lasciando libero sfogo alla fantasia ho "visto" il film, e finiva proprio così
Per meglio apprezzare l'inizio, vi metto le ultime parole (nuove) del prologo
...
Una speranza che non era destinata durare molto.
Da dietro ai due, invisibile dalla posizione in cui si trovava la ragazza, arrivò la voce del capo. Senza nessuna espressione, come se a parlare fosse una macchina, diede l'ultimo ordine: «Ha perso. Il gioco finisce qui».
Quello che aveva fatto maggiore fatica a inseguire la preda si prese la briga, e di certo il gusto, di eseguire l'ordine. Fece i due passi che lo separavano dalla ragazza alzando il braccio destro.
Di tutto quello che avvenne dopo, Marcella Gribaudo, 23 anni troppo spensierati per avere la minima idea di poter finire i propri giorni in questo modo, sentì solo l'occhio sinistro che senza nessun dolore cadeva in avanti, non più trattenuto dallo zigomo, un istante prima di svenire.
Fu decisamente meglio così. La tempesta di calci e pugni che le si abbatté addosso la trascinò nella morte senza altro dolore, in un pazzesco stravolgimento della parola pietà, lasciandole come ultima immagine la vista del sole che spariva dietro le montagne.
Un vecchio amico
L'alba non era certo il momento migliore per un funerale, ma il commissario Gribaudo aveva preferito così. Troppi giornalisti alle cui domande non poteva rispondere, troppi fotografi alla ricerca dell'immagine straziante del poliziotto che si asciugava una lacrima.
Troppo di tutto.
Come se non bastasse il dolore atroce di dover riconoscere il volto della propria figlia in un guazzabuglio di carne e sangue che solo un ottimista in vena di scherzi potrebbe chiamare faccia. Come se non fossero sufficienti i mille momenti in cui ci si chiede “ho sbagliato?”, “dove ho sbagliato?”, “sbaglierò ancora?”
La cripta di famiglia era piccola nella parte superiore, appena sufficiente a fare entrare il cofano funebre e i tecnici che lo avrebbero tumulato. La parte più grande era sottoterra, ma lì non sarebbe entrato nessuno, per tradizione.
Gribaudo si rivolse alla persona di fianco a lui, senza guardarlo: «Dove ho sbagliato?»
Quasi a concretizzare il dilemma, l'uomo rispose: «Hai sbagliato in qualcosa?»
«Sicuramente. Se no adesso Marcella non sarebbe lì dentro» concluse indicando con la mano la bara che proprio in quel momento stava cominciando la discesa verso la parte profonda della cripta.
«Allora, se tu hai sbagliato come padre, io ho sbagliato come padrino».
Polloni mise la mano sulla spalla del collega: «Paolo, non ho figli, ma so che non li puoi mettere sotto una campana di vetro o controllarli tutto il tempo. Devi lasciarli andare, e credo che questa sia la parte più difficile del mestiere di genitore, il momento in cui si scopre se gli insegnamenti impartiti nel corso di una vita, per quanto breve, hanno funzionato. E so che Marcella era una ragazza molto sveglia, forse fin troppo; anche se aveva solo te a fare da padre e madre insieme».
Tacque.
Non ci sono cose possibili da dire a un padre che ha appena perso la figlia, soprattutto se la morte è causata da qualcuno per cui la vita altrui non ha nessun valore. E questo lo si poteva facilmente vedere dallo stato in cui era stata ridotta la ragazza, e che Polloni, come poliziotto e amico della famiglia della vittima, aveva voluto vedere. Aveva provato per una decina di minuti a cercare di sovrapporre al volto della vittima quello che ricordava di Marcella, ma non c'era riuscito. E alla fine si era arreso, resistendo a un attacco di nausea.
Gribaudo si girò verso l'amico e lo guardò negli occhi con un'intensità che preoccupò Polloni: «Michele, questi bastardi sono pericolosi. Hanno già ammazzato tre donne. Devono essere fermati, altrimenti continueranno a uccidere. Devono essere fermati prima che uccidano altre... ragazze». Qui la voce gli si spezzò.
«Paolo...»
L'uomo alzò la mano per interromperlo, per chiedere di aspettare qualche secondo, per lasciargli riprendere fiato e per sciogliere quel nodo che gli si era formato in gola. Appena si riprese disse poche parole: «Michele, promettimi una cosa».
Preoccupato Polloni attese il seguito: «Dimmi».
«Prendili».
«Paolo, io sono...»
«Lo so, sei coinvolto, e oltre tutto sei parecchio fuori zona. Ma mi devi promettere che li prenderai tu, che farai di tutto per prenderli».
«Paolo, sai che questo posso certo promettertelo».
«Non me ne frega niente di quello che puoi o non puoi fare: tu devi prendere questi bastardi, perché devono marcire in galera per tutta la vita».
Tutta la frase venne detta in tono stranamente tranquillo, senza odio apparente, e questo, in qualche modo inspiegabile preoccupò ancora di più il commissario, che si limitò a dare un paio di pacche sulla spalla del collega e amico: «D'accordo, Paolo, te lo prometto: farò tutto il possibile e anche un po' di impossibile», terminò ricordando una battuta che si dicevano spesso quando erano decisamente più giovani.
Paolo reagì alzando un lato della bocca, di più non avrebbe potuto: «Vedi di organizzarti anche per i miracoli».
Intanto i quattro necrofori avevano terminato il loro lavoro ed erano usciti dalla cripta. Un signore distinto chiuse la porta di ferro della piccola costruzione con un grosso lucchetto poco in sintonia con il suo stile simil-gotico, ma decisamente robusto. Si girò e con pochi passi si fermò davanti a Gribaudo: «Le mie più sentite condoglianze, commissario. Eccole la chiave del lucchetto. Ora può riposare in pace».
Il commissario prese la chiave e la osservò per qualche secondo, come non riconoscendola per quello che era. Si riscosse e rispose all'uomo distinto: «Già, in pace. Grazie».
Si avvicinò alla porta della cripta.
Polloni avrebbe passato il resto della vita a chiedersi come mai i tanti segnali non fossero arrivati al suo cervello da poliziotto, come mai il suo personalissimo tarlo del dubbio non si fosse messo a fare le capriole. Forse il dolore per la perdita della figlioccia, forse era ancora sconvolto per le fotografie che aveva visto e che tanto lo avevano disturbato.
Gribaudo si fermò davanti alla cripta e chiuse gli occhi, abbassò la testa e rimase fermo per circa venti , interminabili secondi.
Lo sparo colse tutti di sorpresa, così come l'evidentissimo schizzo rossastro che scaturì dalla testa del poliziotto, alzandosi in verticale, ricadendo quasi con eleganza. Polloni iniziò a correre verso l'amico, sapendo benissimo ancora prima di partire che non poteva essere ancora vivo; impiegò un'eternità a percorrere i pochi metri che lo separavano dal corpo.
La confusione era incredibile, tutti spingevano, cercavano di aiutare, impedendo ad altri di farlo, urlando di fare silenzio, aumentando così il chiasso.
Polloni non sentiva nulla di tutto questo: aveva girato il corpo dell'amico e osservava il volto che, incredibilmente, non era stato toccato dal proiettile uscito dall'arma di ordinanza che nessuno aveva pensato di togliere al vecchio poliziotto: il piccolo pezzo di metallo era entrato nella parte superiore della gola ed era uscito più o meno al centro della cima del cranio.
Gli mise una mano sul petto e mormorò solo due parole, non rivolte solo a lui, ma anche a Marcella, e alle altre due donne uccise allo stesso modo prima di lei: «Lo prometto».