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Per raggiungere la zona palestra, nella parte esterna dell'edificio, era necessario percorrere il largo corridoio che costituiva una delle caratteristiche di ogni “ala” e di ogni piano del Condominio. Le dimensioni erano notevoli, come tutto in quel posto: largo almeno una decina di metri, e lungo una cinquantina, dava più l'impressione di un'enorme stanza molto lunga, piuttosto che di un corridoio.
Gianni era affascinato. Aveva letto molto su questo posto, e molto aveva fantasticato. Ma nulla avrebbe potuto prepararlo alla magnificenza e alle dimensioni faraoniche.
Quasi l'avesse letto nel pensiero arrivò la voce di Giampiero: «Accidenti se è grande!»
Gianni si girò e osservò il compagno: stava come sempre girando con la telecamerina in mano; in quel momento la stava tenendo girata di novanta gradi, probabilmente confondendola con una normale macchina fotografica. La maggior parte di quello che stava registrando sarebbe stata probabilmente da buttare, altro che making of. Pazienza, si sarebbe divertito comunque a inserire le riprese migliori. Un po' gli faceva pena, Venturi, sempre alla ricerca dell'approvazione degli altri, sempre a cercare di essere simpatico. Senza mai riuscirci, per altro.
Gianni sorrise.
Giampiero lo vide e, fraintendendo, sorrise a sua volta, inquadrandolo.
«Indubbiamente il costruttore di questo posto non ha badato a controllare le dimensioni» disse Gianni nell'obiettivo della telecamera, sentendosi appena a disagio.
Fece un gesto veloce come a indicare l'ambiente: «D'altro canto chi ha comprato casa qui non aveva certo problemi di denaro. E scaldare tutti questi spazi enormi d'inverno doveva costare parecchio».
«Quanto costava venire ad abitare qui?»
«Molto, Alessia. Allora si parlava ancora di lire, e con meno di due miliardi non ti avvicinavi nemmeno».
Tiziana fece una smorfia: «Non mi sembrano molti un milione di euro circa».
«Be', diciamo che quindici anni fa la lira valeva in un certo senso di più. Probabilmente adesso dovrebbe essere rivalutata ad almeno il doppio. Diciamo sui due milioni di euro».
Alessia arricciò le labbra ed emise un fischio sbalordito.
Nel frattempo il gruppo arrivò nella Palestra.
Anche questa si sviluppava su tutta la parete dell'edificio; i vari spazi erano stati separati da muri di cartongesso, in modo da creare diverse zone con destinazioni specifiche.
I sei si raggrupparono all'entrata, stupiti ancora una volta dalle dimensioni dell'edificio.
«Adesso dove andiamo?» chiese Franco senza guardarlo direttamente, ma parlando evidentemente con Gianni.
«Be', il regista sei tu, quindi tu dovresti decidere», rispose il ragazzo un po' acido. Non aveva proprio digerito la prosopopea con cui Franco aveva assunto il ruolo di regista.
Franco si girò e alzò un dito per dirne quattro a Gianni, ma tacque e rimase per un paio di secondi a fissare la parete.
Poi, come se non avesse mai smesso di parlare, rispose: «Va bene».
Gianni, che temeva quanto meno un cazzotto, si girò verso Alessia con sguardo stupito e ripeté a bassa voce: «Va bene?»
Franco superò il gruppo e andò verso la parete. Tutti si girarono e capirono il motivo per cui si era tranquillizzato immediatamente: una enorme pianta della zona Palestra era riprodotta sul muro di entrata, e una simpatica freccetta li avvertiva della loro esatta posizione.
«E va be', ma così sono capaci tutti» disse Tiziana comicamente.
Nel gruppo serpeggiò qualche ghigno, poi tutti si misero a studiare la piantina.
«Gianni, hai detto che qui è morta la moglie del Costruttore. Sai dove?».
«Se non ricordo male è morta nella zona in cui ci sono le macchine da jogging, i tapis roulant».
Franco controllò la piantina, individuando in pochi secondi la zona che gli interessava: «Eccoli lì, andiamo che comincia a fare buio.».
Gianni cominciava un po' a scocciarsi del modo di fare di Franco. Approfittava della sua fama da duro, e della sua maggiore età, per spadroneggiare su tutti loro. E poi, a ben guardare, non era proprio così capace di fare il regista. Se non glielo avesse spiegato lui, non avrebbe neanche saputo come gestire la sequenza “motore, ciac, azione”.
Pazienza, ovviamente: l'importante era di portare a casa il risultato, cioè il documentario. E magari anche di stare un po' vicino ad Alessia.
La zona dei tapis roulant era più o meno al centro della Palestra, nella zona che dava verso l'immancabile vetrata. La posizione della Palestra era tale che si poteva vedere un panorama fantastico delle Alpi, in lontananza, appena velato dalla nebbiolina che aleggiava all'esterno. Per qualche motivo, forse la dimensione del vetro, le montagne sembravano molto più vicine.
Gli attrezzi elettrici erano originariamente posizionati in due file parallele con la parte anteriore verso il vetro, in modo da poter correre con l'impressione di essere in mezzo alla natura. Adesso la maggior parte era stata spostata, ma curiosamente erano ancora molti. Forse qualcuno aveva provato a rubarli, poi la fama sinistra della casa aveva convinto tutti che era meglio lasciarli dov'erano.
Adesso erano completamente coperti di ruggine e polvere. Qua e là la plastica che ricopriva alcune parti metalliche si stava sfaldando.
Uno degli attrezzi era posizionato un po' più avanti di quella che doveva essere la prima fila; in questo modo risultava un po' solitario rispetto agli altri. La superficie scura dove normalmente si cammina era screpolata e aperta in più punti; due lunghe strisce più chiare indicavano il consumo causato dall'attrito con migliaia di passi.
Gianni lo indicò: «Credo sia quello».
«Cosa?» chiese Giampiero.
«Dov'è morta la tipa».
«Oh, cazzo» fu la laconica risposta.
Il silenzio che seguì l'affermazione venne interrotto nuovamente da Franco, che ormai aveva preso a cuore il suo ruolo di leader carismatico e regista: «Va bene, vediamo di fare una buona ripresa che si sta facendo tardi. Gianni, secondo te è meglio riprendere verso le montagne, oppure dalla vetrata l'interno della palestra?»
Gianni non si aspettava certo una richiesta di opinione da parte di Franco, per cui rimase qualche secondo interdetto: «Oh... uhm... be', direi che verso le montagne sarebbe meglio come estetica, mentre verso l'interno sarebbe più inquietante».
Franco soppesò la risposta: «Potremmo fare due riprese e mischiarle».
«Mixarle, sì», lo corresse Gianni, ma senza astio.
«Bene, allora diamoci una mossa».
Il gobbo venne preparato in pochi secondi, mentre Gianni si piazzava vicino alla seconda fila di tapis roulant per inquadrare quello isolato e ottenere una splendida vista delle montagne che svettavano da dietro la nebbia.
Tiziana si piazzò di fianco all'attrezzo.
Roberto era sulla destra, invisibile alla telecamera, con la sua giraffa improvvisata nella parte inferiore, coperta dagli attrezzi della prima fila.
«Motore... ciac... azione!»
Questa volta il ciac lo fece direttamente Tiziana battendo le mani.
«Il nostro viaggio all'interno del Condominio Maledetto continua qui, nella Palestra»
Tiziana fece un gesto circolare.
«Questo ambiente era molto frequentato sia dai condòmini, sia dai loro ospiti. Era una palestra perfettamente organizzata e dotata di tutte le strutture necessarie per eseguire qualunque tipo di esercizio e per seguire qualunque tipo di allenamento; qui lavoravano diversi professionisti, fisioterapisti, massaggiatori, medici dello sport. Era tutto studiato in modo che nessuno si potesse fare male. Eppure...».
Tiziana tacque per un paio di secondi.
«Un mattino, il personale addetto alle pulizie trovò il corpo di una donna».
Altra piccola pausa: «Anche in questo caso ci sono alcuni aspetti che lasciano sconcertati: la donna era entrata in Palestra durante la notte, e aveva iniziato a usare uno dei tapis roulant, questo alla mia sinistra. Nessuno ha mai capito esattamente la dinamica della morte della donna, anche se ci furono molte ipotesi. Probabilmente un infarto causato dallo sforzo, anche se alcune voci parlarono di gravi emorragie nella parte superiore della gamba».
«Un altro elemento che contribuì ad aumentare la macabra leggenda su questo posto, fu che la donna morta era la moglie del Costruttore dell'edificio, Tommaso Gonella».
Nel momento stesso in cui Tiziana pronunciò il nome dell'uomo, ci fu un movimento alla sua sinistra, che ne attirò lo sguardo, rovinando l'inquadratura. Giampiero non si accorse di nulla, mentre Gianni riprese Tiziana: «Ferma!»
Alessia si volse alla sua destra: Roberto si era strappato le cuffie, e stava borbottando qualcosa.
«Che succede?» disse Franco.
«Un fischio. Forse il microfono è andato» rispose Roberto.
«Cazzo. Ma ha registrato?» chiese Tiziana.
«Credo di sì. Controllo»
Il ragazzo si mise a trafficare con il suo apparato. Intanto Franco chiese a Gianni: «La ripresa è venuta?»
«Sì, al limite possiamo tagliare la parte finale, gli ultimi due secondi, dove Tiziana si gira».
Roberto aveva posizionato il registratore digitale sulla posizione d'inizio e stava ascoltando nelle cuffie il risultato della registrazione.
Gianni continuò a parlare con Franco: «Possiamo sovrapporre una fotografia di Gonellai quando Tiziana... Ma cosa c'è?»
Stavolta Roberto aveva lanciato un grido strozzato, togliendosi di nuovo le cuffie: «Ahi. Di nuovo quel fischio. Mi sa che l'ho registrato».
«Ma la registrazione è venuta?» chiese Tiziana preoccupata.
«Sì, fino a quando non dici il nome del Costruttore. Quello è coperto dal fischio».
Alessia chiese: «Possiamo sentire anche noi?»
«Sì, c'è un altoparlante. Aspettate». Roberto trafficò per qualche secondo con le impostazioni per far uscire il suono in modo che fosse udibile da tutti. Ruotò alcune manopole per migliorare la qualità: la voce di Tiziana era stata registrata in modo impeccabile.
«... elemento che contribuì ad aumentare la leggenda su questo posto, fu che la donna morta era la moglie del Costruttore dell'edificio...»
Sebbene tutti sapessero che ci sarebbe stato, il rumore colse tutti di sorpresa.
Era un rumore acutissimo, che faceva pulsare le orecchie di dolore.
Alessia cacciò un urlo di paura, Franco si mise le mani sulle orecchie, come Gianni. Giampiero invece continuava a registrare allegramente, quasi fosse insensibile. Tiziana strizzò gli occhi e impallidì.
Roberto fermò la riproduzione dopo un paio di secondi, che a tutti parvero lunghissimi.
«Dio, che male!» disse Tiziana, massaggiandosi le tempie, «mi ha fatto venire mal di testa».
«Anche a me» confermò Alessia tenendosi una mano sulla fronte.
Gianni si rivolse direttamente a Roberto: «Il microfono funziona ancora?»
«Controllo».
Dopo qualche secondo, Roberto confermò che il microfono sembrava a posto, e che potevano proseguire.
Franco sbuffò: «Uffa, certo che se per fare un filmetto come il nostro ci sono tutti questi casini, non oso immaginare per fare un film intero!»
«Già, sembra facile visto da fuori», commentò Gianni.
«Va be', diamoci una mossa» disse Franco per l'ennesima volta, «Adesso, se non ricordo male, dobbiamo andare in garage, vero?»
Gianni si stupì nel vedere che il ragazzo stava entrando sempre di più nella parte di regista: non pensava proprio che si sarebbe ricordato di tutti i passaggi da fare. Si era già abbastanza stupito di quando gli aveva spiegato il motivo per cui si fanno i “ciac”, e lui l'aveva capito: «Sì, al primo piano sotterraneo».
«Da dove passiamo?»
«Direi che possiamo tornare indietro e scendere dalle scale. C'è un accesso ai garage che dà direttamente sul Parco».
«Ok, andiamo, truppa».
I sei si prepararono e alla spicciolata si incamminarono verso il corridoio.
Roberto, prima di andarsene, lanciò un'ultima occhiata al tapis roulant.
“Eppure c'è qualcosa che non mi quadra” si disse.
Poi fece spallucce, e se ne andò: “Mi verrà in mente”.

I sei ripercorsero il grande corridoio in direzione della Piscina, per scendere nel Parco passando dalle scale.
L'atmosfera era stranamente rilassata e allegra, nonostante l'ambiente lugubre. In fondo erano già a metà lavoro; mancavano ancora un paio di riprese, e a giudicare dal tempo impiegato a fare le prime due, incidenti compresi, non avrebbero tardato più di tanto.
Seguendo questo filo di pensieri, ad Alessia venne istintivo porre una domanda alla quale nessuno aveva pensato fino a quel momento: «Che ora è?»
«A l'è ura ch'at cate na mustra! (=E' ora che ti compri un orologio)» replicò Giampiero ridendo, e smettendo per un secondo di riprendere.
Alessia gli fece la linguaccia, ma sorridendo con gli occhi, e proseguì: «No, dai, davvero: che ore sono? Mi sembra che fuori sia piuttosto buio».
Tiziana tirò fuori dalla tasca il cellulare, e fece scorrere verso l'alto la metà superiore. Rimase per qualche secondo a studiare quello che vedeva nel piccolo visore: «Uhm, mi sa che anche il mio è impazzito: dice che sono le sette passate».
Gianni intervenne: «Ma non è possibile: siamo arrivati intorno alle due e siamo qui da non più di un paio d'ore. Al massimo possono essere le...»
«Quattro e venti» disse una voce dietro di loro.
Si girarono tutti, incuriositi dal tono della voce di Roberto, che aveva in mano il suo cellulare.
«Ecco» disse Gianni, «questa è un'ora più plausibile».
Roberto scosse la testa: «No, intendevo proprio dire le quattro. Di notte».
«Come di notte?» chiese Alessia, preoccupata.
Roberto alzò il piccolo visore verso gli amici: «Nel senso che non mi sta dicendo che sono le sedici e venti, ma le quattro e venti».
Tiziana consultò di nuovo il suo apparecchio: «Accidenti, non ci avevo pensato. Anche il mio segna le sette e un quarto e non le diciannove».
Anche Franco e Giampiero diedero un'occhiata, tirando fuori altri due orari completamente sballati.
«Ma... com'è possibile?» Nella voce di Alessia era possibile sentire una nota d'isteria.
Gianni era altrettanto preoccupato, ma non voleva agitare l'amica più di tanto: «Be', ci potrebbe essere una spiegazione più che ragionevole».
«Tipo?» lo sfidò Alessia.
«Tipo un campo magnetico. Se non ricordo male il Condominio è dotato di un generatore di corrente autonomo: magari gli accumulatori sono ancora parzialmente carichi; noi ci siamo passati vicino senza accorgercene e questo ha sballato i nostri cellulari».
Qualcuno scosse la testa in senso affermativo, cercando conforto nello sguardo di qualcun altro.
Roberto aggiunse: «Magari è lo stesso motivo per cui qui non c'è campo».
Non se n'era accorto nessuno, e tutti si sbalordirono quando, controllando ognuno il proprio apparecchio, videro che il taciturno Roberto aveva detto un'altra verità.
«Cacchio, non me n'ero proprio accorta» disse Tiziana.
«Uhm, questa storia non mi piace per niente» disse Franco, che essendo il più adulto, e anche il regista, si sentiva più o meno eletto alla carica di capo carismatico del gruppo.
«Meglio se ce ne andiamo e torniamo magari domani a fare le ultime riprese».
La maggior parte dei presenti fece cenno di sì con la testa. Gianni in realtà avrebbe voluto replicare che era meglio terminare il lavoro, ma vide lo sguardo terrorizzato di Alessia e il suo scuotere la testa quasi frenetico, e decise di tacere. Non c'era nulla di male a tornare il giorno dopo, così avrebbero avuto più tempo per fare un lavoro ben fatto. E lui avrebbe potuto stare un po' di più con lei.
E poi doveva convenire che si stava facendo davvero buio, e la cosa non gli piaceva per niente.
«Ok, vi faccio strada» disse infine Gianni, incamminandosi.
Scesero le scale e superarono la porta di metallo, inoltrandosi quindi nella fitta vegetazione, in direzione dell'angolo di muro perimetrale dove avevano scavalcato.
Impiegarono pochi minuti ad arrivarci.
«Ecco l'albero storto» disse Alessia, riconoscendo l'arbusto che li aveva salutati quando erano arrivati.
«Già. Ed ecco... oh, cazzo!»
Franco si preoccupò dell'espressione agitata di Gianni: «Che succede?»
«Succede che la corda non c'è più».
Il gruppo guardò verso il muro. Non c'era traccia della fune che avevano usato per entrare; essendo una corda da arrampicata, di un bel colore rosso, sarebbe stato impossibile non vederla per qualche effetto ottico, anche alla scarsa luce del pomeriggio inoltrato.
«Ma non è possibile!» si lamentò Alessia.
«Siete sicuri che fosse qui?» chiese Franco, conoscendo già la risposta.
«Ma certo, accidenti! C'è anche l'alberello storto, qui».
Franco si girò verso Gianni: «Ne avrai ben un'altra, no?»
«Non che non ce l'ho! Mica potevo portarmi dietro tutto il mondo, cazzo! E poi pensavo che una bastasse e avanzasse».
«E hai pensato male, imbecille! Dovevi portarne un'altra».
«Intanto io ho comunque portato molto più roba del tuo niente».
«Io sono il regista e non devo portare un bel cazzo di niente». Il tono di Franco si stava facendo minaccioso, ma Gianni non aveva più intenzione di starsene zitto.
«Tu fai il regista perché non sapresti cos'altro fare. Fino adesso il lavoro l'abbiamo fatto noi quattro», fece un gesto circolare per indicare Roberto, Tiziana e Alessia oltre a sé stesso, poi indicò anche Giampiero, che continuava a filmare: «Anzi, cinque perché anche lui si è reso più utile di te».
Franco era furibondo. E probabilmente anche molto spaventato: «Come cazzo ti permetti, bestia?»
«Vaffanculo, mi hai veramente scocciato coi tuoi atteggiamenti da duro!»
Franco fece scroccare le falangi, in tono minaccioso: «Adesso te le prendi».
«Ma fai quel che vuoi. Stronzo sei e stronzo rimani, anche se mi riempi di cazzotti».
Gianni era decisamente fuori dalla grazia di Dio, per cui le due ragazze decisero che era ora di intervenire, frapponendosi tra i due contendenti: «Oh, buoni, calmi, vediamo di non fare i gagni (=Bambini), che non mi sembra proprio il caso» cominciò Tiziana.
Alessia le diede manforte: «Adesso abbiamo problemi più importanti che misurarci il pisello per vedere chi ce l'ha più lungo».
Questa volgarità appena accennata, da parte di una persona poco incline alla volgarità come Alessia, ebbe il potere di interrompere il flusso di testosterone e adrenalina che avrebbe potuto portare a una scazzottata con un vincitore già stabilito. E che non avrebbe risolto nulla della loro attuale situazione.
I due avversari rimasero per diversi secondi a guardarsi in cagnesco, uno aspettando la scusa per attaccare, e l'altro guardandosi bene dal farla, ma senza che questo si vedesse.

I due avversari rimasero per diversi secondi a guardarsi in cagnesco, uno aspettando una scusa, e l'altro guardandosi bene dal fornirla, ma senza che questo si vedesse.
Il momento di tensione si prolungò ancora per alcuni interminabili secondi.
Fu la voce di Giampiero, stranamente grave, a riportare tutti alla realtà: «Che facciamo adesso?»
«Potremmo percorrere il perimetro interno della recinzione. Ci sarà un varco, o un cancello da qualche parte».
Alessia si illuminò: «Roberto ha ragione, cacchio! Facciamo il giro; quanto potrà essere lungo?»
Gianni era pronto: «Parecchio, ma non impossibile: il perimetro ha dei lati di circa cinquecento metri, ed è più o meno un quadrato, per cui dobbiamo fare un paio di chilometri, che a circa cinque chilometri all'ora...»
Tiziana si era già spazientita a metà della frase: «Sì, vabbe', lasciamo perdere e andiamo, se no passiamo qui la notte, che non ho nessuna intenzione di farmi uccidere da mio padre. Già sarà incazzato come una biscia perché è decisamente tardi».
Si incamminò e il resto del gruppo le andò dietro alla spicciolata. Franco e Gianni tennero una distanza sufficiente a evitare altre scoppi d'ira.
Tiziana si era incamminata in una direzione a caso. Dopo diversi minuti raggiunsero l'angolo successivo. Giampiero commentò: «Su quattro lati ce n'è almeno uno con un passaggio, e figurati se lo beccavamo al primo colpo!»
Tiziana non si girò neanche: «Potevi scegliere tu la direzione, no? Invece sei sempre dietro come un cagnolino ubbidiente».
Giampiero, che continuava a registrare con la telecamerina, fece una faccia strana, indeciso se la frase della ragazza era da considerare un'offesa, oppure no. Nel dubbio fece quello che faceva sempre: ignorò la battuta.
Camminarono ancora per diverso tempo. Provarono a controllare l'ora sui cellulari, ma ognuno continuava a dare un'ora diversa e decisamente assurda. Nessuna sembrava corretta, per cui decisero tacitamente di lasciar perdere e di continuare a cercare il cancello d'entrata. Anzi, d'uscita.
Raggiunsero il secondo angolo.
«Uhm, sei sicuro che fosse una specie di quadrato? Mi sembra di avere camminato molto più di prima».
«Sì, Alessia. Almeno a quanto dice il libro che ho usato come documentazione, la recinzione è di circa mezzo chilometro per lato».
La ragazza sembrava molto poco convinta. Gianni provò a rincuorarla: «Magari è solo perché sei stanca. Vuoi darmi il tuo zaino?»
Alessia se lo aggiustò sulle spalle: «No, non pesa tanto. Ma grazie».
E gli scoccò un sorriso che avrebbe potuto dargli da sognare per diverso tempo.
«Coraggio, statisticamente adesso dovremmo trovare il cancello» disse Gianni parlando a tutti.
«E sarebbe ora» borbottò Franco, ma con poca convinzione. Nessuno commentò.
Ripartirono.
Stavano camminando da una ventina di minuti, quando, nella nebbia, Tiziana vide qualcosa di estremamente preoccupante: «O porca miseria!»
«Che succede adesso?» chiese Franco con voce stanca.
Tiziana indicò davanti a sé: «Succede che siamo al punto di partenza».
Il dito della ragazza tremava leggermente, ma nessuno se ne accorse: davanti a loro era ben visibile l'alberello storto. E della fune continuava a non esserci traccia.
Nessuno disse una parola, non ce n'era bisogno. L'assurdità del momento era talmente evidente che nessuno sapeva esattamente cosa dire.
Solo Alessia, dopo diversi minuti in cui tutti cercarono di ragionare per quanto possibile, disse l'unica cosa sensata: «Io ho paura».

«Ma non è possibile, forse abbiamo contato male gli angoli».
Le parole di Franco vennero accolte da un silenzio assordante. Nessuno fiatò per diversi secondi, e nell'aria rimase l'eco del tremolio della voce del ragazzo.
«Fossero stati duecento forse avremmo potuto sbagliare a contare, ma erano solo quattro cazzo di angoli! Come avremmo mai potuto sbagliare tutti a contare?»
Il ragionamento di Tiziana non faceva una piega.
Gianni non era del tutto d'accordo: «Aspettate. E se ci fossero due alberelli storti uguali?»
L'idea venne accolta con un altro silenzio meno convinto del precedente. Alessia non vedeva l'ora di avere un po' di speranza: «È vero, potrebbe essere».
Tiziana scosse la testa: «Due alberelli uguali identici? In un videogioco forse, ma nella realtà... non mi sembra possibile».
«Potremmo andare al prossimo angolo; sono solo cinquecento metri» disse Roberto.
«Giusto, e magari potremmo trovare sia il secondo alberello storto che la corda!» fu l'ottimistica previsione di Giampiero.
Franco fece un gesto con la mano come per scacciare una mosca: «Assolutamente inutile, secondo me. Ma tanto, per restare qui possiamo anche provare».
Tiziana lo guardò in tralice, poi si rivolse a tutti: «Bene, visto che abbiamo l'avallo del regista possiamo andare». E, come aveva già fatto diverse volte, si incamminò, ignorando lo sguardo rabbioso di Franco.
Tutti la seguirono.
Dopo un quarto d'ora arrivarono all'angolo successivo, dove non c'era ombra di un alberello storto, né simile né diverso dal precedente.
Franco indicò con la mano aperta: «Visto? E adesso cosa cazzo facciamo?»
«Ho paura» disse Alessia sommessamente.
Franco faceva ormai fatica a mantenere la calma: «Abbiamo capito che hai paura, porca puttana! Cambia qualcosa se ce lo dici di continuo? No. E allora piantala di rompere».
Gianni si intromise: «Lasciala stare. Lei non ci voleva neanche venire qui, e direi che non aveva poi tutti i torti».
Alessia aveva le lacrime agli occhi, ed era evidentemente sull'orlo di una crisi. Tiziana cercò di metterci una pezza, cercando per l'ennesima volta di ragionare: «Va be', ma allora che facciamo?»
Il minuto abbondante di silenzio fu rotto dalla voce pacata di Roberto: «Torniamo al Condominio».
Tutti si voltarono verso di lui, Alessia sgranando gli occhi per la paura: «Ma sei scemo?» gli chiese senza mezzi termini.
Il ragazzo non sembrò accorgersi dell'insulto, e continuò: «Possiamo andare sul terrazzo e provare a fare delle segnalazioni con la torcia. E magari lassù funzionano anche i telefonini».
Gianni lo guardò con ammirazione: «Porco giuda... potresti avere ragione, sai?»
La calma di Roberto e l'ottimismo nella voce di Gianni ebbero il potere di galvanizzare il gruppo: forse avevano esagerato la situazione, magari un po' di stanchezza aveva giocato loro un brutto scherzo.
Rapidamente si organizzarono e si diressero verso l'edificio.
«Da dove entriamo?» chiese Tiziana.
Roberto rispose con la sua solita flemma: «Direi da dove siamo entrati prima. Inutile inventarci nuove strade».
Tiziana sorrise: «Sei uno da sposare, tu».
La battuta contribuì a rallegrare l'ambiente. Si infilarono rapidamente attraverso la porta di metallo, e salirono le scale fino a raggiungere la palestra.
Gianni indicò verso il fondo del corridoio: «Laggiù ci sono le scale di servizio, di fianco agli ascensori». I cinquanta metri vennero percorsi in fretta: la possibilità di uscire da questa situazione era molto motivazionale. Probabilmente ci sarebbe stata qualche sgridata, forse qualche scapaccione, e sicuramente qualche punizione a diversi livelli, ma a chi importava?
Di fianco alle quattro porte degli ascensori c'erano due porte, una per lato, con sopra scritto “scale”. Franco, che stava davanti a tutti, aprì quella di destra.
Osservò attraverso il vano centrale libero quante rampe ci fossero da fare.
«Quanti piani sono?» chiese senza rivolgersi a nessuno in particolare.
Gianni si sentì chiamato in causa: «In tutto sono sei piani; qui siamo al primo, quindi dobbiamo salire per cinque piani».
Franco sembrò soppesare l'informazione: sembrava tornato a rivestire il suo ruolo di capo.
«Forza, diamoci una mossa» incitò gli altri.
Partirono con decisione, e l'impeto durò per un paio di piani.
Purtroppo quelle scale non erano state studiate per essere comode, ma solo per i casi di emergenza: per questo i gradini erano piuttosto alti, e le rampe, che dovevano superare piani di altezza superiore alla media, erano decisamente lunghe. Tutti questi fattori, combinati insieme, portarono il gruppo a rallentare, chi più, chi meno, intorno alla sesta rampa.
«Ma porca miseria...» ansimò Giampiero, «quanto dobbiamo ancora salire?»
Infine si ritrovarono tutti su un pianerottolo sul quale si apriva una sola porta e dal quale non partivano altre rampe.
«Siamo arrivati» disse Giampiero, che sembrava essersi abbonato alle ovvietà.
La porta aveva un grosso maniglione antipanico. Franco ci si buttò sopra a corpo morto e quasi rotolò nella stanza successiva, seguito immediatamente da tutti gli altri.
Si ritrovarono in un ambiente completamente buio.
«Ma... è già notte? Che ore sono?» chiese la voce di Tiziana.
Gianni tirò fuori il suo cellulare: «Niente da fare, orario sballato anche qui».
La voce di Alessia rivelava una nota di speranza: «C'è campo?»
Gianni scosse la testa al buio, appena illuminato dalla luce del piccolo apparecchio: «Niente da fare, neanche un filo d'erba».
Roberto osservò il suo cellulare. Sul suo modello erano indicati anche i secondi. In quel momento segnava le 6:59:52.
Lo tenne davanti agli occhi mentre il tempo scorreva: 53, 54, 55.
Per qualche motivo non riusciva a togliere gli occhi dal visore, come fosse ipnotizzato. Il tempo scorse ancora: 57, 58, 59.
Il minuto scattò.
Roberto guardò per diverso tempo l'ora che veniva segnata. Ma decise di non dire agli altri che il suo orologio stava segnando le sei e sessanta minuti.
Si riscosse sentendo la voce di Franco: «Dove cazzo siamo?!»
La voce rimbombò.
Gianni rispose con un filo di voce: «Di sicuro non siamo sul terrazzo. Questo posto è completamente al chiuso».
Tiziana aveva la voce che tremava leggermente: «Forse prima del terrazzo c'è una qualche stanza, magari un magazzino».
«Riusciamo a fare luce in qualche modo?» chiese Giampiero.
A Gianni venne un'idea: «Cavolo, Giampiero, la tua telecamera ha la funzione di visione notturna. Attivala, così magari ci capiamo qualcosa. Dovrebbe essere nella sezione di configurazione video».
«Aspetta» rispose Giampiero, cominciando a trafficare sul piccolo visore touch-screen dell'apparecchio.
«Ecco, finalmente. Adesso vediamo...» disse alla fine, alzando la telecamera per guardarsi intorno. Ma la voce gli si spense in gola.
«Che succede?» chiese Franco.
Non ottenne risposta: illuminato dallo schermo della telecamera digitale, il volto di Giampiero era trasformato, come se avesse visto un fantasma.
Gianni gli si avvicinò, e guardò a sua volta quello che il suo amico stava osservando e che tanto l'aveva sconvolto.
«Ragazzi, abbiamo un problema» balbettò.
Tutti si assieparono dietro a Giampiero.
Tiziana si mise una mano davanti alla bocca, Alessia urlò. Franco fece due passi indietro scuotendo la testa. Roberto non aveva bisogno di vedere, aveva capito che qualcosa non quadrava.
Nel piccolo visore in grosso cartello sulla parete indicava il luogo dove si trovavano.
“Garage – Sottolivello 2”.

«Che succede?» chiese Franco.
Non ottenne risposta: illuminato dallo schermo della telecamera digitale, il volto di Giampiero era trasformato, come se avesse visto un fantasma.
Giampiero scosse la testa, continuando a guardare sbigottito nel piccolo visore: «No, no no».
Gianni gli si avvicinò, molto preoccupato, e guardò a sua volta quello che il suo amico stava osservando e che tanto l'aveva sconvolto.
«Ragazzi, mi sa che abbiamo un problema» balbettò.
Giampiero lanciò un urlo e lasciò cadere la telecamera, sempre più sconvolto.
Gianni era abbastanza vicino da riuscire ad afferrare al volo il piccolo apparecchio: «Giampiero, cosa fai?»
Non ottenne risposta: il ragazzo urlava frasi senza senso, preda da un panico pressoché totale. Qualcuno provò a parlargli, ma anche questo non riuscì a ottenere nessun risultato.
«Non è possibile, non è possibile!» continuava a urlare Giampiero.
Franco fece un passo avanti e lo afferrò per un braccio. Giampiero si scosse, urlando «NO!»; si girò e scappò verso il buio, ormai preda di un panico che non era più in grado di controllare.
«Dove vai, matto?» gli gridò dietro Gianni.
Rimasero tutti attoniti, cercando disperatamente di guardare nel buio, senza ottenere nessun risultato se non di farsi venire un profondo mal di testa.
«Ma cos'ha visto?» chiese Franco a Gianni.
Il ragazzo tirò su la telecamera e la puntò nella stessa direzione in cui si trovava prima: «Questo».
Il gruppetto fece un giro intorno a Gianni per poter vedere.
Tiziana si mise una mano davanti alla bocca, Alessia urlò. Franco fece due passi indietro scuotendo la testa. Roberto non aveva bisogno di vedere, non aveva proprio voglia di altra follia.
Nel piccolo visore, nella luce verdastra del visore notturno, un grosso cartello sulla parete indicava il luogo dove si trovavano.
“Garage – Sottolivello 2”.

«Voglio uscire da qui, voglio uscire da qui, voglio uscire da qui».
Giampiero mise la mano su un pilastro di freddo cemento e prese fiato. Vagamente si rendeva conto di avere fatto una solenne cazzata a scappare in quel modo, ma lui voleva veramente uscire da lì, non ci pensava nemmeno a stare due o tre piani sotto terra in un posto così... pazzesco come quel maledetto palazzo.
Guardò davanti.
C'erano altri pilastri allineati con quello sul quale era appoggiato, poi la strada sembrava curvare verso sinistra. Guardò bene in quella direzione, per quanto era possibile nella spessa penombra in cui si trovava. Forse era un'impressione, ma la strada sembrava salire. Di poco, ma sembrava proprio in salita.
Forse avrebbe dovuto tornare indietro a cercare i suoi amici.
“Amici un cazzo”, pensò tra sé. Fossero stati amici non l'avrebbero portato lì. Fossero stati amici non avrebbero tirato a sorte per decidere in quale gruppo sarebbe finito. Fossero stati amici...
Ma non lo erano, e se la strada era davvero in salita, l'avrebbe imboccata, sarebbe uscito e sarebbe andato verso il muro, e sarebbe uscito in qualche modo, poi sarebbe andato a chiamare aiuto, e nessuno l'avrebbe preso più per il culo, perché lui sarebbe stato quello che aveva salvato i suoi amici.
“Amici un...” stava per ripetere.
Si interruppe per due diversi motivi. Era arrivato all'inizio della strada che sembrava in salita, e, incredibilmente, lo era davvero. Si era fermato proprio per godersi il momento, quando alle sue spalle sentì un rumore indistinto.
Trattenne il fiato.
Per diversi secondi il silenzio fu pressoché totale, escludendo il rumore di gocce in lontananza, amplificato dall'ambiente chiuso.
Fece uno sforzo per isolare il rumore di sgocciolamento da tutto il resto.
Niente.
Per cinque secondi circa. Poi il rumore si ripeté, questa volta più chiaro.
Ssssst ploch.
Sembrava qualcosa che fosse trascinato e poi lasciato cadere, qualcosa di umido, come una spugna, o... non riusciva a trovare un'altra similitudine.
«Ragazzi, siete voi?» chiese, sperando che fosse solo uno scherzo.
Si abbassò cercando di vedere meglio. L'ambiente chiuso ed enorme, e i pilastri creavano echi che rendevano impossibile capire la provenienza esatta.
Ma sicuramente era davanti a lui, da qualche parte.
Ssssst ploch.
Di nuovo. Ma cosa poteva essere?
Nella penombra gli sembrò di vedere qualcosa muoversi. Forse un gatto, o qualcosa del genere. Guardò meglio. Dalle dimensioni pareva più un cane. Ma si muoveva molto lentamente, come se soffrisse. Insomma, non dava certo il senso di qualcosa di pericoloso.
Adesso che aveva capito dove si trovava il suo inseguitore, il suono risultava più chiaro.
Ssssst plo-ploch.
Erano due le cose che sembravano cadere, a brevissima distanza l'una dall'altra.
«Ehi, chi sei tu?» chiese un po' assurdamente.
Ssssst plo-ploch.
«Guarda che ti vedo: cosa vuoi? Che ci fai qui?»
Stava per porre la domanda più importante, cioè “come si esce da qui”, quando nei suoi movimenti lenti e convulsi al tempo stesso, il suo avversario passò in una zona un po' più illuminata.
E Giampiero vide cosa lo stava seguendo.
Fece alcuni passi indietro lungo la rampa di salita, guardando l'assurdità che cercava lentamente di raggiungerlo. Scosse la testa: «No, no, NO, NO!», esattamente come pochi minuti prima quando era fuggito dal gruppo.
Anche questa volta si girò e si mise a correre disperatamente, ritrovando nel terrore le forze che sembravano averlo abbandonato. Percorse la rampa di salita raggiungendo in pochi secondi il piano superiore. Non vide da nessuna parte un cartello che potesse confermare la sua nuova posizione, per cui continuò a correre ansimando e controllando con rapide occhiate che il suo inseguitore non l'avesse in qualche modo raggiunto.
Dietro di lui non c'era nessuno. E poi la lentezza che aveva visto nei movimenti di quella... cosa non le avrebbe permesso di raggiungerlo neanche se avesse camminato. Cosa che non aveva nessuna intenzione di fare.
L'adrenalina terminò il suo effetto momentaneo e la mancanza di allenamento fece il resto. Si fermò nuovamente con la mano contro un pilastro, ad ansimare come un vecchio fumatore. Preso dalla foga e dalla paura non si era quasi reso conto di avere fatto un giro completo del garage. Gli tornò in mente che la struttura era a forma di ettagono, per cui anche i garage erano probabilmente con la stessa forma, con delle rampe che portavano su e giù tra i vari piani.
Se prima era al sottolivello 2, adesso doveva essere al sottolivello 1, anche se continuava a non vedere nulla che lo confermasse; e, cosa ancora più importante, davanti a lui ci sarebbe sicuramente stata una nuova rampa che l'avrebbe condotto, alla zona deiie calntine.
O forse addirittura fuori!
Rincuorato da questa nuova speranza si rimise in cammino. In lontananza vide la rampa che conduceva al piano superiore, e la sua impressione era che ci fosse un po' più di luce in quella direzione.
Affrettò il passo.
Percorse la rampa in pochissimi secondi, quasi riprendendo a correre. La percorse tutta e, spinto dalla rincorsa, si inoltrò di alcuni passi nel nuovo ambiente, prima di rendersi conto che qualcosa non quadrava.
Se si fosse trovato nella zona cantine il luogo sarebbe stato diverso, e se fosse stato fuori, be', a quel punto se ne sarebbe ben accorto, no?
E invece sembrava che fosse ancora in un garage.
“Magari ci sono tre piani, e questo è il sottolivello zero”, si disse, senza convincersi.
La penombra era identica a quella del piano da cui era fuggito, e questo non contribuiva a rassicurarlo, ovviamente. Si inoltrò per alcuni metri nell'ambiente.
In lontananza gli sembrò di vedere un cartello con su scritto qualcosa. Ci si avvicinò rapidamente. Lesse il cartello senza riuscire a capire immediatamente cosa c'era scritto. Lo rilesse più volte, sperando ogni volta che il risultato potesse cambiare in qualche modo, ma questo continuava imperterrito a presentare le stesse lettere, a formare le stesse parole.
Tutto questo lo distrasse abbastanza per non rendersi conto che dietro di lui, molto vicino, appena coperto dallo sgocciolio, un rumore si era ripresentato.
Ssssst plo-ploch.
Giampiero si girò lentamente, pregando con tutto il cuore che quello che aveva visto prima fosse un'allucinazione, qualcosa che non può esistere, che non deve esistere.
Abbassò lo sguardo.
La cosa si drizzò sugli arti anteriori, ruotò il busto e puntò due occhi vitrei nei suoi.
Il ragazzo respirava a fatica, con respiri corti, brevissimi, rapidissimi.
Cadde seduto all'indietro, senza poter staccare gli occhi dall'assurdità che aveva davanti. La cosa si mosse nella sua direzione, senza mai togliere gli occhi dai suoi. Aprì appena la mascella e Giampiero, in un incredibile momento di lucidità, vide chiaramente l'ugola andare su e giù, come se stesse deglutendo.
Un rumore secco uscì dalla gola, l'ultimo rumore che il ragazzo avrebbe sentito nella sua vita.
Il suo cuore non riuscì più a sopportare la pressione e la velocità con cui stava pompando. Si aprì una breccia sul fianco dell'organo cardiaco e da qui il sangue andò a inondare il petto, uccidendolo in pochi, dolorosissimi secondi.
Davanti a lui la cosa continuò a ridere per diverso tempo.
Guardò il cartello che recitava “Garage – Sottolivello 6” e questo la fece ridere ancora di più.
Smise improvvisamente, si girò e tornò nel buio del garage.
Ssssst plo-ploch.

I cinque continuarono per molti minuti a chiamare il loro compagno, inutilmente.
«Ma guarda se si può essere più coglioni!» sbottò infine Franco.
Alessia lo guardò infuriata nella penombra: «Ma come sarebbe a dire 'coglione'? A te sembra normale che dopo essere saliti per sei piani ci ritroviamo due piani sottoterra? Altro che cagarsi sotto! Non fosse che ho troppa paura di restare da sola, scapperei anch'io!»
Franco distolse lo sguardo come se fosse poco importante: «Ma cosa c'entra la paura adesso? Invece di scappare in quella maniera idiota, poteva fermarsi a ragionare un attimo, no? A nessuno è venuto in mente che quel cartello potrebbe anche essere sbagliato per esempio?»
Tutti rifletterono per diversi secondi sul significato delle parole di Franco.
«In effetti potrebbe essere». Gianni quasi non credeva alle sue stesse parole: stava in qualche modo difendendo il ragionamento dell'avversario. D'altro canto non aveva davvero torto, poteva benissimo darsi che il cartello fosse errato, magari era stato attaccato per sbaglio. Anche se un errore in un condominio di lusso come quello non era esattamente logico.
«Magari lo hanno attaccato dopo che il condominio è stato chiuso. Forse qualcuno che voleva divertirsi. Può darsi addirittura che siamo davvero vicino ai terrazzi, e che questo cartello non c'entra nulla con il posto dove ci troviamo...» disse ancora Gianni.
«Non hai torto; potrebbe essere», disse Tiziana, parlando lentamente. Si guardò intorno per quello che era possibile e aggiunse: «Però a me questo sembra proprio un garage».
«Be', sì, in effetti...»
Seguì qualche secondo di silenzio, che venne interrotto dalla voce inaspettata di Roberto.
«Io avrei un'idea».
«Prova a dire» lo incoraggiò Alessia.
Roberto proseguì, parlando lentamente: «Giampiero ha passato tutto il tempo da quando siamo arrivati a fare riprese. Possiamo dare uno sguardo a quello che ha registrato».
Gianni si infervorò: «Accidenti, è vero!»
Tiziana aggiunse: «Però magari torniamo alle scale, forse c'è più luce».
Nel buio Roberto scosse la testa: «Secondo me è meglio farlo qui».
«Perché?»
«Perché qui, essendo più buio, possiamo abbassare la luce della telecamera, e quindi...»
Gianni capì al volo: «... risparmiare batteria! Hai ragione, Roberto: se è vero che Giampiero ha registrato tutto, deve averla tenuta quasi sempre accesa. Io l'ho caricata ieri, quindi era al massimo, ma in ogni caso è meglio ottimizzare».
Aprì lo sportello che nascondeva il piccolo schermo dell'apparecchio e trafficò per abbassare la luminosità. Nell'angolo superiore destro una piccola icona a forma di batteria, alla sua destra era indicata la percentuale di carica residua.
«Ventun percento: meglio che niente» disse Alessia, alzando un angolo della bocca in una pallida imitazione di sorriso.
Gianni continuò a digitare sul piccolo touch-screen, impostando il punto in cui voleva cominciare la visualizzazione: «Secondo voi se torno indietro di una mezz'oretta va bene?»
Roberto commentò: «A occhio direi di sì».
Ancora qualche manovra, poi Gianni annunciò: «Bene, siori e siore, lo spettacolo va a incominciare».
«Non fa ridere» lo rimbrottò Alessia, guardandolo male. Gianni accennò un sorriso di scusa. Si misero tutti a guardare nel piccolo schermo.
All'inizio la ripresa era piuttosto confusa. Gianni borbottò: «Mannaggia, quanto l'agitava sta telecamera! E pensare che gli avevo detto di tenerla ferma».
Tiziana gli fece segno di tacere.
Nel piccolo schermo intanto Franco era appena entrato attraverso la porta con su scritto “scale”, alla fine del corridoio della zona Fitness. Giampiero aveva superato tutti e si era messo vicino a Franco per riprenderlo.
«Quanti piani sono?» chiese Franco guardando verso l'alto.
Giampiero spostò la telecamera verso la tromba delle scale, per osservare quello che diceva Franco. Gianni emise un fischio di pallida ammirazione: «Be', questa ripresa non è male». Da fuori campo la voce di Gianni disse: «In tutto sono sei piani; qui siamo al primo, quindi dobbiamo salire per cinque piani».
Franco roteò comicamente gli occhi, a dimostrare quanto poco ritenesse opportuna la precisazione del compagno.
«Forza, diamoci una mossa» disse infine il “capo”, infilando le scale.
Verso il basso.
«Ma... non è possibile!» disse la voce sgomenta di Tiziana, «Ricordo benissimo, che siamo saliti. E di corsa, pure».
«A quanto pare no...» rispose sommessamente Franco.
Dopo un paio di rampe in discesa, la voce fuori campo di Giampiero colse tutti di sorpresa: «Ma porca miseria... Quanto dobbiamo ancora salire?»
«Assurdo... assurdo». La voce di Gianni uscì con una preoccupante nota di isteria.
Quasi fece un salto quando sentì una mano posarsi sulla sua spalla.
Era di Roberto.
«Calmati, Gianni. Respira a fondo e calmati».
La voce pacata del giovane ebbe il potere, per l'ennesima volta, di calmare tutti.
Dopo che il giovane ebbe recuperato il controllo, respirando più tranquillamente, Tiziana chiese: «Ma com'è possibile? Siamo tutti strasicuri di essere andati verso l'alto, e per cinque piani, mentre invece la telecamera dice che siamo scesi per quattro. Com'è possibile?»
«Infatti non è possibile» concluse Franco, «ci deve essere una spiegazione».
«Ma chi se ne frega della spiegazione!», sbottò Alessia, «A me interessa sapere come ne usciamo». Poi si rivolse direttamente a Roberto: «Tu che hai sempre buone idee, e che mi sembri il più tranquillo, anche se non ne capisco il motivo, mi dici cosa pensi di fare?»
Roberto rifletté per alcuni minuti, creando un po' di nervosismo in Franco. Fece per parlare, ma venne tacitato da Tiziana, che era piuttosto interessata alla risposta che il ragazzo avrebbe dato. Franco tacque, imbronciato.
Roberto iniziò a parlare lentamente: «Purtroppo credo che sia importante il motivo per cui avvengono questi fenomeni, altrimenti non troveremo una soluzione per uscire da qui»
Prese nuovamente una piccola pausa, poi proseguì: «Io credo che qui ci sia qualcosa, una presenza che sta cercando di controllarci, e ci sta riuscendo a quanto pare. La sento da quando siamo arrivati nel parcheggio, ma ero quasi convinto che fosse solo una mia sensazione».
Roberto prese fiato, e Alessia ne approfittò per infilarsi e fare una domanda: «Cosa intendi per presenza?»
«A questo non so rispondere di preciso. So solo che sento chiaramente che c'è una forza rabbiosa qui dentro. Da qualche parte c'è un grumo di odio puro, di rabbia furiosa; qualcosa che è alla ricerca di una vendetta, credo, o comunque che non ha paura di fare del male. Anzi, che non ha paura e basta, e che probabilmente fare del male è proprio il suo obiettivo.
Questo spiega il perché questa zona è priva di animali. Avrete notato che da quando siamo qui non abbiamo sentito un uccello di qualsiasi genere, né visto un gatto o, ancora più facile in una casa abbandonata, un topo».
Alessia rispose tremando: «Mi stai facendo paura».
«Mi dispiace, Alessia. Mi hai chiesto cosa ne pensavo, e questo è quello che penso. Per meglio dire è quello che sento».
Franco ne aveva abbastanza: «Senti, medium dei miei coglioni, ti spiace spiegarmi per quale motivo dovremmo darti retta? Sei mica diventato come il mago Athenai, che tutto vede e tutto sa?»
Il tentativo di fare una battuta andò sprecato. Roberto era decisamente immune alle offese, dirette o indirette: «Non sono un medium, almeno credo».
Gianni inserì una domanda: «Be', allora come fai a...?»
Roberto, contrariamente alle sue abitudini, lo interruppe, dicendo una cosa così assurda, che nessuno, per diversi minuti, riuscì a trovare qualcosa da dire.
«Lo so perché non dormo da dieci anni».