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Franco salì le rampe di scale da incazzato, pestando i piedi. In questo modo aveva l'impressione di essere meno solo, e di avere più controllo su quello che stava facendo.
Già, il controllo. Era sempre stata la sua mania, e nei rarissimi casi in cui non poteva esercitarlo, si sentiva perso. Anche quando questo richiedeva di essere l'unico a prendere decisioni, aveva un sistema tutto suo di gestire la cosa: se sapeva cosa fare lo faceva, se non lo sapeva faceva in modo che le decisioni le prendessero altri; poi, se la cosa andava in porto, si prendeva i meriti, altrimenti era colpa loro.
E questo fin da quando era piccolo: i suoi genitori avevano dovuto imparare in fretta a cedere ai suoi capricci, altrimenti erano urla, strepiti. Quando era cresciuto un po', aveva imparato l'arte del silenzio: se non veniva accontentato, smetteva di parlare e non c'era verso di fargli dire una sillaba. Sua madre si era spaventata talmente, che era dovuta andare in analisi per diverso tempo.
Sinceramente quello che era successo nel garage l'aveva spaventato, ma mica poteva farsi vedere a frignare come una ragazzina, no?
No, ovviamente.
Finalmente arrivò al piano terra nella colonna delle scale. Saggiò la porta di uscita, dotata di maniglione antipanico. L'operazione vece tintinnare una catena chiusa da un lucchetto dall'aspetto vecchio, ma inequivocabilmente robusto.
«Cazzo» disse ad alta voce. Il suono ebbe il potere di rinfrancarlo ancora un po'.
Salì ancora due rampe e uscì dalla porta, trovandosi ancora una volta nel piano della Palestra. Stava diventando un posto conosciuto, e questo pensiero lo fece sorridere.
Percorse il largo corridoio e scese le due rampe, sbucando nuovamente sul limitare del parco interno del Condominio.
Si fermò per qualche secondo per orizzontarsi.
«Di là» disse indicando la direzione dalla quale erano arrivati. Era sicuro che laggiù, a poche decine di metri, c'era la corda che spenzolava placida, e che stava aspettando solo lui.
Fece un ghigno pensando a quegli imbecilli nel garage.
Si era allontanato di una decina di metri, e il pensare ai suoi compagni lo fece girare. Gli sembrò di vedere un movimento al primo piano, dove c'era la sala delle pedane. Forse aveva visto male, o forse i cretini si erano spostati.
Si girò nuovamente, masticando un «E chi se ne fotte!», e proseguì.
Arrivato a una ventina di metri dall'angolo da cui erano entrati si fermò.
Ne era sicuro, ma contemporaneamente aveva paura di essersi sbagliato: la corda stava placidamente ondeggiando appesa al gancio dove l'aveva lasciata Gianni.
Si fregò le mani, tutto contento, e si avvicinò.
Piazzò i pugni sui fianchi, e guardò per qualche secondo la corda: quanto gli sarebbe piaciuto se qualcuno l'avesse guardato in quel momento! E invece niente: pazienza.
«E adesso andiamocene» si disse allegro, allungando una mano verso la corda.
Che si spostò, evitando la mano del ragazzo.
Franco la osservò sbigottito. La fune aveva fatto un movimento fluido, come un serpente che gira intorno a un ostacolo.
Ovviamente non era possibile, per cui provò di nuovo ad afferrarla. Questa volta la fune si spostò di alcuni centimetri dalla parte opposta.
«Ma porca puttana!» si arrabbiò Franco. Provò ancora a prenderla, e ancora questa sgusciò via. La cosa si stava facendo davvero irritante, oltre che assurda. Gli sembrava di essere in un cartone animato: ogni volta che si avvicinava, quella fuggiva, come fosse animata.
Improvvisamente la fune smise di contorcersi, e Franco ne approfittò per prenderla saldamente nella mano destra.
«A-ah, ti ho presa, brutta troia!» gongolò.
Si godette il risultato per pochissimi secondi, perché la fune riacquistò immediatamente vita e gli si avvolse saldamente intorno al polso.
«Ahi, mollami!» gridò, inascoltato. Anzi, proprio come fanno certi serpenti la fune strinse sul polso, facendo scricchiolare le giunture.
Franco urlò di dolore, cercando di girare il polso per liberarlo dalla stretta.
Per aiutarsi afferrò la parte superiore della fune con la mano sinistra. La corda sembrò ritrarsi, creando un'ampia curva, poi si ripiegò su sé stessa alcune volte, creando diverse spire, almeno quattro, che andarono ad avvolgere il posto sinistro. Immediatamente dopo la corda si tirò incidendo dolorosamente anche sul secondo polso.
Franco stava lentamente scivolando nel panico più totale.
«Lasciami! Lasciami! Lasciami!» urlò tirando con tutte le sue forze per liberarsi.
Puntò i piedi in terra, col tacco. Ma le sue scarpe da ginnastica all'ultima moda facevano scarsa presa sul terreno umido. I piedi scivolarono in avanti, e la fune si allungò, lasciando che battesse una sonora schienata.
Dolorante si rese conto che la corda sembrava avere allentato la presa. Puntò una mano in terra. Facendo questo movimento la parte di corda che univa i due polsi si trovò a pochi centimetri dal collo. Si allungò nuovamente e creò un'altra ansa, che gli si serrò poco sotto il mento.
La corda lo tirò su di peso per li polsi, alzandolo di alcuni centimetri da terra.
Franco aveva ormai perso la battaglia per recuperare il controllo della situazione. Le braccia gli facevano un male che non pensava fosse possibile provare, i polsi si erano probabilmente spezzati, e se non sentiva il male che pensava facesse un polso spezzato – anzi, due polsi spezzati! - era probabilmente causato dal fatto che la corda gli bloccava completamente la circolazione, rendendo le sue mani gonfie, scure, e soprattutto pulsanti.
Lentamente una grossa macchia di umido si allargò sui pantaloni di marca.
Franco, il grande, possente, l'adulto, si era appena pisciato addosso dalla paura.
«Ti prego, ti prego, lasciami andare, per favore...» piagnucolava.
La parte di corda compresa tra i due polsi iniziò ad accorciarsi, ancora una volta contro qualsiasi logica e contro ogni legge fisica. I polsi si avvicinarono al collo, intorno al quale la fune era ancora arrotolata.
I polsi arrivarono al fianco del collo.
A quel punto la corda cominciò a stringere il collo. Franco alzò la testa, cercò di allontanare le braccia, ma la forza dell'oggetto era incredibile, irresistibile. La trachea si chiuse e lo sforzo del giovane di respirare divenne inutile.
Cercava disperatamente di ampliare i polmoni, di allargare la gabbia toracica, sperando che questo avrebbe forzato il blocco.
Dopo pochi, interminabili secondi di lotta disperata, il viso ormai di un colore molto vicino al blu, la lingua gonfia e rigida, Franco smise di lottare.
Già, il controllo. Era sempre stata la sua mania, e nei rarissimi casi in cui non poteva esercitarlo, si sentiva perso. Anche quando questo richiedeva di essere l'unico a prendere decisioni, aveva un sistema tutto suo di gestire la cosa: se sapeva cosa fare lo faceva, se non lo sapeva faceva in modo che le decisioni le prendessero altri; poi, se la cosa andava in porto, si prendeva i meriti, altrimenti era colpa loro.
E questo fin da quando era piccolo: i suoi genitori avevano dovuto imparare in fretta a cedere ai suoi capricci, altrimenti erano urla, strepiti. Quando era cresciuto un po', aveva imparato l'arte del silenzio: se non veniva accontentato, smetteva di parlare e non c'era verso di fargli dire una sillaba. Sua madre si era spaventata talmente, che era dovuta andare in analisi per diverso tempo.
Sinceramente quello che era successo nel garage l'aveva spaventato, ma mica poteva farsi vedere a frignare come una ragazzina, no?
No, ovviamente.
Finalmente arrivò al piano terra nella colonna delle scale. Saggiò la porta di uscita, dotata di maniglione antipanico. L'operazione vece tintinnare una catena chiusa da un lucchetto dall'aspetto vecchio, ma inequivocabilmente robusto.
«Cazzo» disse ad alta voce. Il suono ebbe il potere di rinfrancarlo ancora un po'.
Salì ancora due rampe e uscì dalla porta, trovandosi ancora una volta nel piano della Palestra. Stava diventando un posto conosciuto, e questo pensiero lo fece sorridere.
Percorse il largo corridoio e scese le due rampe, sbucando nuovamente sul limitare del parco interno del Condominio.
Si fermò per qualche secondo per orizzontarsi.
«Di là» disse indicando la direzione dalla quale erano arrivati. Era sicuro che laggiù, a poche decine di metri, c'era la corda che spenzolava placida, e che stava aspettando solo lui.
Fece un ghigno pensando a quegli imbecilli nel garage.
Si era allontanato di una decina di metri, e il pensare ai suoi compagni lo fece girare. Gli sembrò di vedere un movimento al primo piano, dove c'era la sala delle pedane. Forse aveva visto male, o forse i cretini si erano spostati.
Si girò nuovamente, masticando un «E chi se ne fotte!», e proseguì.
Arrivato a una ventina di metri dall'angolo da cui erano entrati si fermò.
Ne era sicuro, ma contemporaneamente aveva paura di essersi sbagliato: la corda stava placidamente ondeggiando appesa al gancio dove l'aveva lasciata Gianni.
Si fregò le mani, tutto contento, e si avvicinò.
Piazzò i pugni sui fianchi, e guardò per qualche secondo la corda: quanto gli sarebbe piaciuto se qualcuno l'avesse guardato in quel momento! E invece niente: pazienza.
«E adesso andiamocene» si disse allegro, allungando una mano verso la corda.
Che si spostò, evitando la mano del ragazzo.
Franco la osservò sbigottito. La fune aveva fatto un movimento fluido, come un serpente che gira intorno a un ostacolo.
Ovviamente non era possibile, per cui provò di nuovo ad afferrarla. Questa volta la fune si spostò di alcuni centimetri dalla parte opposta.
«Ma porca puttana!» si arrabbiò Franco. Provò ancora a prenderla, e ancora questa sgusciò via. La cosa si stava facendo davvero irritante, oltre che assurda. Gli sembrava di essere in un cartone animato: ogni volta che si avvicinava, quella fuggiva, come fosse animata.
Improvvisamente la fune smise di contorcersi, e Franco ne approfittò per prenderla saldamente nella mano destra.
«A-ah, ti ho presa, brutta troia!» gongolò.
Si godette il risultato per pochissimi secondi, perché la fune riacquistò immediatamente vita e gli si avvolse saldamente intorno al polso.
«Ahi, mollami!» gridò, inascoltato. Anzi, proprio come fanno certi serpenti la fune strinse sul polso, facendo scricchiolare le giunture.
Franco urlò di dolore, cercando di girare il polso per liberarlo dalla stretta.
Per aiutarsi afferrò la parte superiore della fune con la mano sinistra. La corda sembrò ritrarsi, creando un'ampia curva, poi si ripiegò su sé stessa alcune volte, creando diverse spire, almeno quattro, che andarono ad avvolgere il posto sinistro. Immediatamente dopo la corda si tirò incidendo dolorosamente anche sul secondo polso.
Franco stava lentamente scivolando nel panico più totale.
«Lasciami! Lasciami! Lasciami!» urlò tirando con tutte le sue forze per liberarsi.
Puntò i piedi in terra, col tacco. Ma le sue scarpe da ginnastica all'ultima moda facevano scarsa presa sul terreno umido. I piedi scivolarono in avanti, e la fune si allungò, lasciando che battesse una sonora schienata.
Dolorante si rese conto che la corda sembrava avere allentato la presa. Puntò una mano in terra. Facendo questo movimento la parte di corda che univa i due polsi si trovò a pochi centimetri dal collo. Si allungò nuovamente e creò un'altra ansa, che gli si serrò poco sotto il mento.
La corda lo tirò su di peso per li polsi, alzandolo di alcuni centimetri da terra.
Franco aveva ormai perso la battaglia per recuperare il controllo della situazione. Le braccia gli facevano un male che non pensava fosse possibile provare, i polsi si erano probabilmente spezzati, e se non sentiva il male che pensava facesse un polso spezzato – anzi, due polsi spezzati! - era probabilmente causato dal fatto che la corda gli bloccava completamente la circolazione, rendendo le sue mani gonfie, scure, e soprattutto pulsanti.
Lentamente una grossa macchia di umido si allargò sui pantaloni di marca.
Franco, il grande, possente, l'adulto, si era appena pisciato addosso dalla paura.
«Ti prego, ti prego, lasciami andare, per favore...» piagnucolava.
La parte di corda compresa tra i due polsi iniziò ad accorciarsi, ancora una volta contro qualsiasi logica e contro ogni legge fisica. I polsi si avvicinarono al collo, intorno al quale la fune era ancora arrotolata.
I polsi arrivarono al fianco del collo.
A quel punto la corda cominciò a stringere il collo. Franco alzò la testa, cercò di allontanare le braccia, ma la forza dell'oggetto era incredibile, irresistibile. La trachea si chiuse e lo sforzo del giovane di respirare divenne inutile.
Cercava disperatamente di ampliare i polmoni, di allargare la gabbia toracica, sperando che questo avrebbe forzato il blocco.
Dopo pochi, interminabili secondi di lotta disperata, il viso ormai di un colore molto vicino al blu, la lingua gonfia e rigida, Franco smise di lottare.