[Racconto] Da molto lontano

Una piccola avventura ai limiti del soprannaturale

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overhill
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[Racconto] Da molto lontano

Messaggio da overhill »

A volte si vede meglio da lontano che da vicino
Proverbio Popolare


Carlo era al settimo cielo.
Accarezzava la scrivania quasi come fosse viva, assaporandone la varia rugosità, le imperfezioni degli anni, i segni dei suoi predecessori. Aggiustava in continuazione i piccoli fogli con gli appunti necessari alla sua nuova attività, i numeri di telefono, i nomi dei colleghi, i numeri brevi per le chiamate di emergenza. Si guardava intorno, osservando con piacere gli scaffali sui quali alla rinfusa convivevano rubriche telefoniche, voluminose pagine gialle, libri economici, bloc-notes.
E in mezzo a tanta vitalità, l'oggetto che più di ogni altro era indispensabile per la sua missione: un telefono. Non era particolarmente moderno o futuristico. Era solo un vecchio, onesto telefono sul quale sembrava che qualche dottor Frankenstein tecnologico avesse eliminato il disco per la composizione dei numeri, sostituendolo con una piccola tastiera. Il colore grigio non contribuiva a renderlo più bello, ma per Carlo era un oggetto quasi sublime.
Alla facoltà si parlava spesso della istituzione dove si trovava. Era un passaggio quasi obbligato per i laureandi in psicologia, specialmente per quelli che avevano deciso l'impervia strada della pedagogia; il numero di bambini che chiamavano giornalmente “Voce Amica”, attraverso il suo semplice numero telefonico, era impressionante. Decine e decine di voci quasi sempre anonime, che attraverso l'esile filo telefonico lanciavano un disperato grido di aiuto.
Carlo conosceva l'associazione, è chiaro, ma la sua partecipazione non era solo dettata dalla necessità di acquisire crediti formativi, ma anche, e soprattutto, da un amore smodato verso l'infanzia, che aveva deciso sarebbe diventata il suo mestiere. Anzi, la sua missione.
Ovviamente non poteva lavorare durante il giorno, poiché alle lezioni era assolutamente obbligatorio partecipare. E certamente la sera non era il momento migliore, poiché i piccoli avevano scarse possibilità di essere nelle condizioni di chiamare, data la presenza di quei genitori che nel 90% dei casi era l'”orco” dal quale i piccoli chiedevano di essere difesi.
Carlo buttò uno sguardo all'orologio. Le 22:00. Nella stessa grande stanza una ventina di suoi compagni di avventura: alcuni parlavano, ma la maggior parte era inattiva per fortuna, e utilizzava il tempo per ripassare, o fare le parole crociate, o leggere il giornale. Il fare un lavoro volontario, e non retribuito, aveva i suoi vantaggi.
Stava pensando se leggere qualcosa anche lui o magari andare in bagno, giusto per essere assolutamente libero, quando il telefono davanti a lui vibrò. Quel vecchio modello aveva ancora un campanello vero dentro, che veniva percosso da una barretta di metallo. Una rotellina di fianco permetteva di avvicinare o allontanare quella barretta in modo da ottenere un suono più o meno intenso, e l'ultimo operatore doveva avere messo la distanza al massimo, per cui la barretta frullava nell'aria senza colpire il campanello. Nella grande stanza un sommesso “frrr frrr” era più che sufficiente per essere udito e per non disturbare gli altri.
Prese un respiro prima di rispondere, e lo fece volutamente prima per evitare che potesse essere confuso con uno sbuffo d'impazienza, alzò la cornetta e disse con voce tranquilla: «Voce Amica. Ciao, sono Carlo: come posso aiutarti? » Tutto il passaggio era calcolato: prima il nome dell'associazione per fare capire che il numero fatto era giusto. Poi il nome per creare un contatto; e infine l'uso della seconda persona singolare per avvicinarsi ancora di più e non creare barriere, neanche linguistiche.
Dall'altra parte della cornetta non si sentiva nulla. Per alcuni secondi Carlo rimase in attesa, cercando di captare qualche suono che potesse fargli capire se c'era veramente qualcuno oppure se era uno dei tanti scherzi che qualche buontempone ogni tanto si divertiva a fare.
Parlò ancora: «Ciao, ci sei? Se ci sei, dì qualcosa.... »
Niente.
Attese ancora qualche secondo, poi fece per allontanare la cornetta dall'orecchio ma in quel momento si udì qualcosa che sembrava venire da molto lontano. L'unica cosa che capi fu che la voce era di un bambino, oppure di una donna, ma secondo lui era più facile fosse di un bambino.
« Oh ciao, finalmente ti sento. Non ho capito cos'hai detto. Puoi ripetere? »
La linea fece qualche rumore, e Carlo temette che la comunicazione fosse definitivamente caduta. Da lontano arrivò la voce, sottile, tesa, circospetta: « ho paura »
Le numerose lezioni di psicopedagogia iniziarono a dare i loro frutti, ma nonostante questo, un brivido percorse tutta la colonna vertebrale. Sapeva benissimo che doveva mostrarsi interessato allo stato del bambino, o bambina che fosse: «mi dispiace che tu abbia paura. Di cosa hai paura?»
Qualche secondo di silenzio.
« ... è tutto buio»
Di nuovo silenzio. La “gestione” di un rapporto con un bambino è piuttosto complessa: il silenzio non va bene, ma anche parlare troppo è un errore, che il piccolo può vedere come minaccia. Ci vuole molto tempo per capire la personalità di un bambino, e farlo per telefono con pochi secondi di dialogo è praticamente impossibile. Carlo decise di continuare a parlare, per svagare il bambino e per farsi dire qualcosa di utile per capire se era in pericolo e se sì come poteva aiutarlo.
« Neanche a me piace il buio. Non si vede niente, vero? »
Rumori sulla linea. La voce parve allontanarsi: « no »
« Quando ero piccolo avevo una piccola luce a forma di maialino. Sai quello dei cartoni animati. Come si chiama? »
« Piggy »
Il ragazzo esalò lentamente un piccolo sospiro di sollievo: stava cominciando ad agganciare il piccolo: « Sì, proprio lui! Bravo! Era bellissima, e faceva una bella luce, non troppo forte. La tenevo accesa anche tutta la notte. Tu non hai una luce? »
«Non so dove sono»
Come sarebbe a dire che non sa dov'è? si chiese Carlo, da dove sta telefonando? Pensò che forse era il caso di avvertire il suo responsabile, il cui numero era il primo in alto nel foglietto dei riferimenti. Però forse era presto. Magari era solo un bambino spaventato, magari aveva chiamato all'insaputa dei genitori.
«Be', per forza che non sai dove sei: mi hai detto che è tutto buio, vero?»
«Sì»
«Bene, allora sai cosa possiamo fare? Visto che non puoi vedere dove sei adesso, possiamo provare a cercare di ricordare l'ultima cosa che hai visto prima che diventasse tutto buio. Cosa ne dici?»
Silenzio.
Carlo temette ancora di averlo perso. Invece la voce tornò, anche se il tono sembrava preoccupato: «va bene»
«Benissimo! Allora, facciamo così. Adesso fai finta che il tempo invece di andare in avanti, va all'indietro. Allora tutto quello che fai è al contrario, cammini al contrario, se hai rotto qualcosa quello si aggiusta da solo, se dai un calcio a un pallone, quello torna indietro. Forte, eh?»
Con sollievo di Carlo la voce risultò un po' più decisa: «forte, sì»
«Bene! Allora, prova a tornare indietro a prima che la luce si spegnesse. Qual è l'ultimissima cosa che ricordi?»
Il piccolo fece un verso, un mugolio come quando ci si concentra: «Uhm, l'ultima ultima?»
«L'ultimissima» rispose Carlo solennemente. I bambini odiano non sentirsi presi sul serio.
«C'era un palazzo, grande. Sopra ci sono due cerchi, uno da una parte e uno da un'altra. Uno ha una barretta di fianco e l'altro ce l'ha sotto, però rotta in due...»
Il giovane rifletté su quello che il piccolo aveva detto, e su come l'aveva detto: gli era sembrato di sentire un vago accento straniero. Poi passò al contenuto della frase: due cerchi? Barrette? Non erano decisamente degli indizi utili a capire dove potesse essere.
« Oh, che strano. Due cerchi... Ma sono sul palazzo dove ti trovi adesso, oppure sono per terra, in un disegno o un quadro? »
«Sul palazzo, mi pare...» disse il piccolo, titubante.
« Strano... »
« Non mi credi...? »
Ahi si disse Carlo, e si affrettò a rispondere: « No, assolutamente! Solo che non riesco a capire che palazzo potrebbe essere... E adesso sei lì?»
«Credo di sì...»
La voce del piccolo si incrinò: «mi stanno venendo a prendere...»
«Chi ti sta venendo a prendere? » chiese Carlo cercando di mantenere un tono serio ma non allarmato, per non spaventare del bambino.
«Papà»
Carlo ebbe un piccolo brivido. Guardò ancora il numero del responsabile. Preferì continuare ancora da solo per qualche minuto. Se la conversazione fosse proseguita come lui temeva, sarebbe stato costretto a chiamarlo. E a chiamare anche la polizia.
«Oh... E ti fa paura papà?»
«...sì...». La voce era lontanissima. E triste.
«ti fa... del male?»
«... sì...»
« E la mamma?»
Carlo alzò una preghiera sperando che la risposta fosse positiva. Ma in quel momento probabilmente Dio aveva la segreteria telefonica intasata: «...anche...»
A questo punto non si poteva rimandare. Senza allontanare la cornetta dall'orecchio, fece un cenno a una ragazza in fondo al corridoio tra i vari cubicoli. Era una veterana del posto, e capì subito che c'era la necessità di intervenire. Alzò il pollice per indicare che aveva capito, andò in un'altra stanza e tornò dopo qualche secondo con il responsabile del turno di notte di “Voce Amica”, un medico anziano ma estremamente energico.
I due si avvicinarono e presero la cornetta secondaria, posizionandola in modo da poter sentire. Questa cornetta era senza microfono, quindi non c'era pericolo che si sentisse il respiro o, peggio, la voce.
Intanto Carlo continuava a parlare con il piccolo, del quale, si rese conto, non aveva neanche chiesto il nome: «Mi spiace. E non c'è nessuno che possa aiutarti, non so, uno zio, un fratello...? A proposito, non ti ho chiesto come ti chiami. »
Il piccolo sembrava titubante. Carlo abbassò un poco la voce « be' tu sai come mi chiamo io, e poi questo si chiama “voce amica” e tra amici ci si chiama per nome, no? »
Il piccolo era ancora titubante, probabilmente temeva di essere preso in giro. Si stava chiedendo se potesse essere pericoloso dare il proprio nome a un estraneo. Però il ragionamento filava, non si trovava nessuna possibilità di pericolo...
«Angelo»
«Bel nome, Angelo, mi piace!»
Il responsabile fece un gesto a Carlo, che capì: «e di cognome come ti chiami?»
Questa volta la pausa fu decisamente più lunga. Alla fine la voce era sottile sottile: «papà mi dice sempre di non dare il cognome in giro. E' pieno di polizia. E se do il cognome poi mi portano in un posto bruttissimo. »
Certo che il tuo papy è un bel pezzo di merda pensò imbufalito Carlo. Alzò gli occhi sulle altre due persone, che ricambiarono lo sguardo contemporaneamente infuriato e impotente. C'era poi quell'accenno alla presenza della “polizia” che dava da pensare. Angelo non sembrava avere un accento particolare, ma costruiva le frasi in modo strano, poteva essere figlio di immigrati irregolari, o di persone con problemi con la giustizia.
Giorgio, il responsabile, fece cenno a Carlo di coprire la cornetta: «chiedigli se sa dov'è». Rispose direttamente il giovane: «dice di non saperlo, che è tutto buio...»
«Sei ancora lì?» disse la voce sospettosa del bambino
Carlo si affrettò a rispondere: «Sì, sì, scusa, ma mi era caduta una cosa per terra e la stavo raccogliendo...». La piccola bugia parve tranquillizzare il piccolo.
«Allora, Angelo. A me piacerebbe aiutarti, ma ho bisogno che mi aiuti anche tu. Se hai paura che papà o mamma vengano a prenderti, ho bisogno di sapere dove sei, così posso venire a prenderti per salvarti.»
«E mi porti via?»
«Solo se tu vuoi.»
«In un posto bruttissimo?»
«Neanche per sogno, Angelo, non lo permetterei mai!»
Il piccolo sembrava tranquillizzato ma contemporaneamente disperato: «ma io non so dove sono!»
«Lo so, me l'hai detto. Mi hai detto che sei nel palazzo coi due cerchi...»
«Sì...»
Carlo decise che doveva parlarne con i colleghi presenti, e fece una cosa non del tutto corretta, ma che in questo frangente era indispensabile: «Angelo, non riesco proprio a capire cosa possa essere quel posto. Ti spiace se ne parlo con dei miei amici?»
«Ma sono lì?»
«Sono qui vicino»
« ...e sentono cosa dico? »
«No, non sentono quello che ci diciamo. E' per quello che volevo chiedergli se sanno che posto è quello.»
Un artista della menzogna pensò di sé stesso Carlo. Rimase in attesa, speranzoso. Forse Dio aveva riattivato la segreteria telefonica: «va bene, ma non ci mettere tanto»
«Va bene, Angelo, aspetta lì, non te ne andare.»
Premette un pulsante, mettendo in attesa il piccolo.
Raccontò la storia a Giorgio e alla ragazza, Emanuela. Discussero per qualche secondo, perché non si poteva lasciare Angelo in attesa per troppo tempo. Il responsabile prese la decisione: «vado di là e chiamo la polizia, ci sono tutti gli estremi per un abuso su minore. Così magari riusciamo anche a recuperare il numero da cui chiama Angelo.»
Giorgio tornò nel suo piccolo ufficio, lasciando Emanuela con Carlo. Premette nuovamente il pulsante: «Angelo, sei ancora lì»
Per qualche secondo non si sentì nulla. Guardò la ragazza con angoscia.
«Hai chiamato la Polizia?»
«Uh, Angelo, che paura! Pensavo te ne fossi andato!»
«Hai chiamato la Polizia?»
Un'altra bugia. Mi sa che il mio posto in paradiso me lo sono proprio giocato, stavolta! «No, Angelo, non c'è bisogno della Polizia. Dobbiamo solo aspettare che i miei amici riescano a capire dove si trova il palazzo che hai visto. Intanto possiamo ancora parlare un po', cosa ne dici?»
«Va bene»
Carlo buttò un'occhiata verso l'ufficio di Giorgio, e lo vide dietro la vetrata mentre parlava concitatamente. Evidentemente era in collegamento con la Questura e stava dicendo di sbrigarsi. Volse nuovamente la sua attenzione verso il piccolo e cercò un argomento per distrarlo.
«Senti, Angelo, mi sembra che tu abbia un accento strano. Sei straniero? »
La risposta del bimbo diede a Carlo la conferma che era un po' più tranquillo e che si fidava: «Sì. Veniamo dalla Romania»
Veniamo...
«Uh, deve essere un bel posto...»
«Sì, avevo tanti amici lì. Poi mio padre ha perso il lavoro, e ha deciso di venire qui, in Italia, perché diceva che qui in Italia c'è lavoro, per tutti, anche per bambini.»
«Oh. Avrete fatto un viaggio molto lungo...»
«Sì, ma lui non è venuto con me. E' venuto papà a prendermi.»
«Ma tu hai due papà?»
«No. Io ho papà che è a casa in Romania, e poi un altro che si fa chiamare papà che ha dato soldi all'altro papà, e che mi ha portato qui.»
«Cosa fai qui in Italia?»
«Papà mi manda a lavare i vetri delle macchine e chiedere soldi quando sono ferme. Anche alla gente in strada. Solo che devo prendere tanti soldi se no mi picchia.»
Ecco in due parole tutto l'orrore del lavoro minorile, di queste bestie che prendono piccoli di meno di dieci anni e li sbattono su una strada a chiedere l'elemosina, scalzi, denutriti, picchiati se non portano una quantità sufficiente di denaro. Carlo sentiva montare una rabbia dentro, che solo perché era indispensabile mantenere un atteggiamento tranquillo non veniva lasciata uscire per urlare la propria furia. Razza di bestie...
«Ah, ecco, ho capito. Senti, Angelo: prima di arrivare dove sei adesso, prima di entrare nel palazzo con i due cerchi, dove stavi?»
«Be' io non ricordo bene. So che tutti i giorni papà mi portava sulla strada a lavare i vetri delle macchine e a chiedere i soldi alla gente, dal mattino fino alla sera. E poi la sera ci portava tutti in una casa a mangiare e a dormire. Ma mangiava solo chi aveva fatto abbastanza soldi.»
Ci portava...
«Non eri da solo, allora. Ci sono altri tuoi amici con te?»
«Non adesso. Prima si, eravamo io e altri cinque o sei, non ricordo.»
«Tutti maschietti?»
«Prima no, c'era anche una bambina. Ma poi è sparita. Un giorno non c'era più e papà diceva che era andata a lavorare da un signore gentile.»
Anche la prostituzione. Non si fanno mancare nulla questi qui...
Mentre continuava la conversazione con Angelo, venendo a conoscenza di un numero di particolari agghiaccianti dei quali avrebbe fatto volentieri a meno, Carlo sentì dietro di sé del trambusto: si girò e vide avanzare a grandi falcate Giorgio, seguito da due uomini, uno giovane, in divisa da Poliziotto, e un altro più anziano, un omone grande, con i capelli bianchi. Pensò che non sarebbe stato contento di avere davanti quell'uomo se fosse stato interrogato, ma che sarebbe stato felice di averlo al proprio fianco in caso di pericolo.
Fece un cenno verso i nuovi venuti per dire di attendere un istante, poi continuò a parlare nel microfono: «Angelo, forse i miei amici hanno trovato qualcosa. Puoi aspettare di nuovo come prima? Faccio in fretta, te lo giuro...»
Angelo era ancora titubante, ma questa volta lo fu meno di quella precedente: «Va bene, ma fai in fretta.»
«Stai tranquillo. Ciao.»
Premuto il pulsante si girò verso l'uomo anziano, che gli porse una mano e venne subito al sodo: «Buongiorno, sono il commissario Polloni. Lei è Carlo, giusto?»
«In persona, commissario.»
Polloni indicò il ragazzo in divisa: « Questo è l'Agente Scelto Giacomo Rizzo, collabora con me.» Quindi passò al nocciolo della questione: «allora, mi dica cosa succede.»
«Oggi è il mio primo giorno di lavoro qui, e ho ricevuto una chiamata preoccupante da parte di un bambino. A quanto ho capito è straniero, dice di venire dalla Romania, ma è stato portato qui per fare accattonaggio, e credo sia stato venduto dai genitori.»
Polloni era attentissimo, e a questo punto del racconto gli scappò un bastardi, del quale chiese scusa con un cenno.
«Purtroppo il piccolo non sa dove si trova.» Carlo spiegò la questione dei cerchi. Polloni si voltò verso Rizzo, si guardarono per un paio di secondi. Il giovane rispose: «Sinceramente non mi viene in mente nulla. Due cerchi, una barra laterale, una barra di sotto...»
Carlo si agitò sulla sedia: «per cortesia, ditemi cosa devo fare. Non posso lasciare il piccolo in attesa per troppo tempo...»
«Certo,» rispose il commissario «riprenda subito la linea e continui a parlare col piccolo, nel frattempo noi facciamo rintracciare la telefonata.»
Carlo fece un cenno di assenso e premette il pulsante che toglieva l'attesa: «Angelo? Sei ancora lì?»
Silenzio.
Porca miseria! «Angelo! Ci sei ancora?!»
Silenzio.
Carlo si girò a mezzo sulla sedia, senza staccare la cornetta: «mi sa che ce lo siamo...»
In quel momento si sentì distintamente un singhiozzo.
«Angelo, sei tu? Sono Carlo, sono qui! Cosa c'è? Perché piangi?»
Tra i singhiozzi il piccolo riuscì a parlare: «ho paura. Dov'eri andato?»
«Scusami, Angelo, ma stavo parlando con i miei amici. Stavamo parlando di come fare a trovarti. Adesso provano a vedere se con i nostri computer riusciamo a trovarti.»
Il bambino parve interessato: «avete i computer?»
Carlo guardò la propria scrivania dove l'oggetto più tecnologico era il suo cellulare, un modello risalente alle guerre punichie, probabilmente. «Certo! Non sono proprio l'ultimo modello, ma li abbiamo.»
L'interesse aumentò: «avete anche i giochi?»
Carlo sorrise: «qualcosa c'è. Sai» abbassò la voce come per rivelare un segreto «qualche volta, quando il mio capo non mi guarda, ci gioco anche io»
Con una stretta al cuore, finalmente sentì il piccolo fare una risata: «ah ah, e non ti ha mai beccato?»
«No, perché io sono furbo e quando si gira io faccio finta di lavorare.»
Angelo rideva di gusto: «così impara a fare il prepotente!»
«A te che giochi piacciono?» chiese Carlo
«Non so, io non ho mai giocato. Io ho visto i giochi alla televisione. Ho visto quelli di calcio che sono belli, e quelli delle macchine che sono anche belli.»
«Ah, sì, li conosco. Però a quelli non ho mai giocato neanche io. Te l'ho detto che ho un computer vecchio, e quei giochi lì non ci girano, sono troppo grossi.»
«E che giochi hai lì?»
«Uh, vediamo: il solitario, quello con le carte, e poi uno con due vermicelli che corrono per tutto lo schermo e devono mangiare delle mele, e ogni volta che mangiano una mela si allungano e non devono mai andare a sbattere uno contro l'altro.»
«Ah sì. lo conosco, l'ho visto sul computer di un amico di papà.»
Carlo drizzò le orecchie: «ah, papà ha degli amici?»
« Sì. Quando viene la sera a trovarmi a volte èa da solo e a volte porta degli amici. »
Carlo guardò negli occhi Giorgio che stava ascoltando dall'auricolare supplementare: «oh, e giocavate?»
Il piccolo aveva un tono triste: «giocavano loro. Io dovevo solo stare fermo...»
A Carlo si riempirono gli occhi di lacrime. Giorgio gli mise una mano sulla spalla e la strinse dolcemente. Il giovane prese fiato.
Nel frattempo Polloni e Rizzo erano andati nell'ufficio del capo, e stavano discutendo animatamente tra loro, Rizzo con il telefono appiccicato all'orecchio e Polloni sbraitando nervoso. Il commissario strappò la cornetta al sottoposto e vi urlò dei comandi. Parlò ancora qualche secondo, poi chiuse la comunicazione in malo modo. Parlò per qualche secondo con Rizzo, quindi entrambi uscirono e andarono verso Giorgio e Carlo: «niente da fare! Quei balenghi della polizia ferroviaria non riescono a rintracciare la chiamata! Dicono che non si riesce a capire da dove arriva, che ci sono decine di derivazioni, che non riescono a infilarsi nel... aspetta come hanno detto? ... nel “bare bone” dell'infrastruttura. Chissà cosa cavolo è...» Polloni allargò le braccia infuriato, intanto Carlo aveva premuto la cornetta con la mano perché Angelo non sentisse la presenza del Poliziotto.
Polloni alzò una mano come a chiedere scusa, indicò la cornetta: «è ancora lì?» Carlo rispose con un cenno del capo. Il commissario proseguì: «lo faccia parlare, cerchi di farsi dire dove si trova.»
«Ci provo, ma è molto spaventato e credo si trovi al buio.»
Polloni rifletté per qualche istante, poi ebbe una mezza intuizione: «senta, invece di farsi dire dove si trova adesso, provi a chiedere dove abita di solito? Magari possiamo partire da lì...»
«Ci provo.» Alzò la mano dalla cornetta « Angelo? Sei ancora lì?»
«Sì, sono qui: dove sei andato questa volta?»
«Ero qui, ma stavo parlando con un amico mio, uno di quelli del computer. Dice che non riesce a capire dove sei. Strano, vero?»
Il piccolo sembrava nuovamente spaventato: «allora non venite?»
«Dobbiamo cercare ancora. Senti, Angelo, prima mi hai detto che quando finite di lavorare,» non riuscì a trattenersi dal dare a questa parola un accento negativo «il signore che chiami papà vi porta in una stanza. Ti ricordi dov'è questo posto? »
Angelo pensò per qualche istante: «io non conosco il posto, perché non conosco i nomi delle strade. Papà non ci diceva mai come si chiama.»
«Ti ricordi com'è fatta la stanza? Grande, piccola...?»
«Grande, di legno. Quando c'è inverno faceva freddissimo, e allora noi dormivamo tutti vicini per scaldarci.»
«Bravo, è un buon sistema. Vicino alla stanza ci sono altre stanze, altre case?»
«Sì, altre case di legno come quella della stanza, con altra gente che vive lì. Alcuni da Romania, come noi, altri non so da dove, non capisco come parlano.»
«Ah, quindi ci sono altre case. E tutte di legno?»
«Sì, tutte quelle che ho visto.»
Polloni si rivolse a Rizzo, con un tono basso che fu comunque udito dai presenti: «Dev'essere una baraccopoli. Quante ce ne sono in Torino? »
Rizzo fece mente locale: « Direi una mezza dozzina, tra nord e sud. »
« Bene, Giaco, manda almeno un paio di volanti a fare qualche ricerca, una a nord e una a sud. » Rizzo partì di corsa in direzione dell'ufficio di Giorgio.
Polloni si rivolse verso Carlo e a gesti gli disse di chiedere altri dettagli al bimbo. Poi si fece passare la cornetta ausiliaria da Giorgio.
«Bene, Angelo, bravo, hai una bella memoria. Senti, non ti ricordi altro? Magari un palazzo strano lì vicino o un monumento, una statua, oppure dei rumori strani...»
«Ci sono due palazzi strani vicino al fiume.»
«Oh, c'è anche un fiume?»
«Sì, ogni tanto riusciamo a scappare e andare a fare il bagno, ma c'è sempre poca acqua. E poi papà non vuole. Pensa che scappiamo» Un torrente pensò Carlo: «e come sono questi palazzi?»
«Uno è grande grande, e l'altro alto alto. Uno è da una parte del fiume e l'altro dall'altra parte.»
«E cos'hanno di strano?»
«Tutti e due hanno una scritta blu sopra.»
Polloni spalancò gli occhi: sembrava quasi di sentire le rotelle che fregavano dietro le tempie. Improvvisamente si diede una pacca sulla fronte. Restituì la cornetta a Giorgio si allontanò di qualche metro e chiamò Rizzo: «Giaco! Forse ho capito! Devono essere nella zona della Stura, sai dove ci sono i due palazzi dell'Iveco da una parte e il Novotel dall'altra? Ecco, lì c'è una baraccopoli.»
Giacomo fece un entusiastico cenno affermativo: «avverto subito le volanti di andare lì!» Polloni scosse la testa in su e in giù frenetico e intanto disse un po' a tutti: «andiamo anche noi. Li voglio proprio vedere in faccia questi...» Non concluse la frase, e sparì seguito dal collega.
Carlo intanto, con delicatezza, comunicò la cosa a Angelo: «forse ci siamo, sai? Due miei amici credono di avere capito dove ti trovi, e adesso vengono a vedere se possono aiutarti.»
Il piccolo sembrava titubante: «ma... sei sicuro? State venendo qui?»
«Sì, spero di sì. Se hanno capito bene fra qualche minuto sono lì da te, così ti possono aiutare.»
«Ma io non so se...»
«Cosa, Angelo?»
«Non credo di essere nella stanza di legno. Me ne sarei accorto...»
«Sì, hai ragione, Angelo, ma almeno, se trovano dove abiti, magari riescono a capire dove ti trovi. »
«Ah. Sì, forse.»
Silenzio per alcuni secondi: «Angelo...?»
Il piccolo non rispose. «Angelo, ci sei ancora?»
«Sì, aspetta...»
«Va bene, ma cosa...?»
«Aspetta, sto ascoltando...»
«Cosa succede?»
L'urlo del piccolo lo colse impreparato. Si rese conto che non era di terrore ma una risata, una risata allegra e gioiosa, la risata di un bambino che non aveva più paura: «Angelo! Che cosa sta succedendo? Perché ridi così?»
«Sono arrivati! Sono arrivati!»
Accidenti, ma hanno volato? pensò Carlo.
«Ma bene! Allora ti hanno trovato, sei contento?»
«Sì, sì, grazie Carlo, adesso devo andare. Mi chiamano. Ciao e grazie.»
La comunicazione sparì. Così, senza nessun rumore.
Carlo rimase per alcuni secondi con la cornetta in mano, poi alzò lo sguardo su Giorgio che era altrettanto stupito. Si sorrisero. Giorgio mise di nuovo una mano sulla spalla di Carlo e gli parlò dolcemente: «Bravo, hai fatto un bel lavoro.»
Carlo aveva le lacrime agli occhi, un po' per la contentezza di avere risolto il suo primo “caso”, un po' per la rabbia e la tensione accumulata nei minuti precedenti alla soluzione.
Si alzò per sgranchirsi le gambe, mentre Giorgio tornava al suo ufficio. Appena entrato il telefono suonò e il capo rispose. Parlottò per qualche secondo, poi premette una serie di tasti, facendo suonare la derivazione di Carlo. Il giovane si girò verso il capo che gli fece cenno di rispondere.
«Salve, Carlo, sono Polloni.»
«Oh, commissario, sono contento di sentirla. Mi ha detto Angelo che l'avete trovato.»
«Be', sì. Abbiamo trovato la casa dove abitava Angelo...» sembrava imbarazzato.
«Ah, lui non l'avete trovato?» Carlo era deluso
«Sì e no. Abbiamo trovato la casa dove abitava con altri dieci ragazzini, schiavizzati da un loro connazionale...»
Polloni fece una pausa. Evidentemente aveva qualcosa da dire, ma non sapeva come girarla. Carlo provò a spingere: «ma lui non è lì?»
«No, non c'è. Ma abbiamo trovato...un coltello. »
Carlo cadde dalle nuvole: «coltello?»
«L'altra settimana abbiamo trovato un bambino sgozzato. Non se ne sapeva nulla perché non aveva, ovviamente, documenti, ed è stato trovato molto lontano da questa zona. E' stato seppellito qualche giorno fa. Quando siamo arrivati qui la bestia che teneva questi bambini come schiavi aveva ancora il coltello usato per uccidere il piccolo, gli aveva dato solo una sciacquata.»
«Ma non è possibile! Abbiamo parlato per un'ora!»
«Già. Carlo, se non lo avessi sentito con queste orecchie, giuro che non ci crederei, e le darei del pazzo. Ma forse è per questo che non riuscivamo a trovare l'origine della telefonata: veniva decisamente da molto lontano... »
«Ma... e il palazzo con i cerchi?»
Polloni alzò lo sguardo davanti a sé, osservando i due simboli che da sempre contraddistinguono l'inizio e la fine di ogni cosa, il cerchio con la barretta di fianco e il cerchio con la barretta sotto, spezzata. L'alfa e l'omega. L'inizio e la fine.
Girò le spalle verso il Cimitero Monumentale di Torino: sulla facciata della chiesa che divideva i due ingressi erano disegnati i due simboli. Disse a Claudio, con voce triste: « l'abbiamo trovato. »

Fine

Ciao a tutti

Mario Overhill

Da soli si va più veloce. Insieme si va più lontano.
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Messaggio da Blu »

Gran ritorno per Over :) (bentornato :D ) e per Polloni che devo ammettere è stata una sorpresa :) : leggendo il racconto all'inizio pensavo si trattasse di una storia "a sè", man mano che scorrevo le righe la situazione si faceva sempre più complicata e metteva addosso una bruttissima sensazione di impotenza e velato terrore (più che altro per il sottotitolo che avevi messo al topic: leggendo quello si sa già di essere difronte a qualcosa di non normale o facilmente controllabile) .. ma quando nella stanza sono apparsi Polloni con Rizzo.. beh, è stato come "sentirsi a casa" :D , un "arrivano i nostri" vecchia maniera, insomma non avevo dubbi sul fatto che sicuramente si sarebbe venuti a capo della faccenda ed avrebbero capito in fretta dov'era Angelo andandolo così a salvare, una sensazione che ha totalmente fatto dimenticare la paura iniziale di essere in presenza di qualcosa ai confini della realtà, al punto che quando alla fine questo viene rivelato si è nuovamente spiazzati [:^] .. mi piace quando un racconto riesce a sballottarti di qui e di là senza fartene accorgere, facendo provare emozioni diversissime, tenendo incollati alla pagina perché diventa una necessità sapere "come" va a finire (non so se ti/vi è mai capitato di restare alzati tutta una notte incapaci di chiudere un libro: ancora solo un capitolo.. ancora qualche pagina.. ancora uno.. e si fa mattina :D )




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Messaggio da overhill »

Carissima :) bello ritrovare te e i tuoi giudizi :)

In effetti Polloni non era "previsto" ma visto che serviva un commissario di polizia... :)
Esiste da qualche parte un altro racconto che non riesco più a trovare (magari lo riscrivo) che risale al 2002 o 2003 se non sbaglio, dove c'è un poliziotto, ma lì non era ancora nato Polloni... :D

Quell'esperienza mi è capitata con uno dei thriller più "magici" che mi sia mai capitato di leggere, "Gioco Crudele" del prolifico John Saul. Me l'ha prestato un giorno una mia amica; gliel'ho restituito il giorno dopo, l'avevo finito alle quattro del mattino
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Nillc
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Messaggio da Nillc »

Caspita Over, è proprio bellissimissimo!!! (invidia: lo fai leggere prima qua e a me non dici niente :evil: :D )




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overhill
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Messaggio da overhill »

Ma te l'avevo mandato mi pare... :o
O no? :mumble:
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Nillc
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Messaggio da Nillc »

Beh... no :D
Comunque, disgraziato, che aspetti a farti trovare su emmeesseenne?




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overhill
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Messaggio da overhill »

Faccio il prezioso... :D
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